Il Presidente del CONI, Giovanni Malagò, ha partecipato oggi, al Salone d’Onore del CONI, il Convegno “Donne e Sport nell’Italia del futuro: senza barriere”. All’approfondimento, incentrato sulla presenza femminile nel movimento agonistico del nostro Paese, e in particolare sulle barriere culturali che ne ostacolano lo sviluppo, sono intervenuti anche Andrea Garnero, Economista dell’OCSE, la campionessa olimpica dello sci di fondo e membro onorario del CIO, Manuela Di Centa, le olimpioniche della scherma Diana Bianchedi (Dg Roma 2024) e Valentina Vezzali (deputata, Commissione Cultura Scienza e Istruzione), Marco Bonitta, Ct della Nazionale Femminile di Pallavolo, Michele Uva, Direttore Generale della FIGC, Gisella Bellinello Quaglio, Presidente ASD Le Rose Rovigo Rugby e Franco Arturi, editorialista della Gazzetta dello Sport. L’incontro è stato moderato dal Direttore di Sky Tg 24, Sarah Varetto.
Malagò ha aperto il lavori, sottolineando l’importanza della tematica affrontata: “Questo convegno è nato da un’idea di Franco Arturi, che ha sempre dimostrato grande sensibilità in riferimento a questa situazione. Il nostro mondo, anche a livello dirigenziale, è sempre stato prettamente maschile. Ho potuto sostenere la candidatura femminile nelle uniche situazioni in cui ero in condizioni di intervenire: Fiona May, Alessandra Sensini e Valentina Turisini sono entrate in Giunta CONI, nell’individuazione del DG del Comitato Promotore di Roma 2024, inizialmente Claudia Bugno – che ringrazio – e ora Diana Bianchedi. Sono molto felice di vedere, dal Corso di Management Olimpico del CONI in poi, che il nostro mondo attrae molto l’universo femminile. Essere donna però non vuol dire automaticamente avere diritti nel nostro mondo e negli altri ambiti: bisogna avere coraggio, sottoporsi a dinamiche elettorali. Sono il primo sostenitore del concetto che vuole le donne protagoniste del nostro movimento, ma con preparazione e aggiornamenti. Come la Vezzali, una campionessa immensa ma che non si è fermata alla pedana, si è formata, come la Di Centa e la Bianchedi, che hanno studiato. Sono felice di ricordare oggi che la prima italiana a vincere una medaglia olimpica fu Carla Marangoni, nella ginnastica ad Amsterdam 1928: domani compie 100 anni, è la più anziana vincitrice di una medaglia di tutto il mondo. Dobbiamo accelerare, anche in vista delle prossime tornate elettorali, creare le premesse per una successione che contempli una forte competitività delle figure femminili”.
Andrea Garnero, dell’OCSE, si è soffermato sull’impatto del fenomeno a livello occupazionale. “Una bambina di 13 anni ha scritto a Obama, dopo aver visto una gara del mondiale femminile con il fratello e lamentando le considerazioni che volevamo gli uomini più forti del gentil sesso. Un paio di settimane fa ha invitato la ragazza alla Casa Bianca a premiare la nazionale femminile. Obama si è interessato della situazione perché attraverso il coinvolgimento delle donne nello sport si può leggere il ruolo che la società dà a più di metà della sua popolazione. Nei Paesi Europei, secondo la UEFA, il tasso di occupazione sale in base al tesseramento nel calcio. Negli Stati Uniti, nel 1972 ci fu una riforma che obbligò tutte le scuole e i college che ricevono fondi federali a dare le stesse opportunità a ragazzi e a ragazze, con la partecipazione sportiva passata da 294 mila del 1971 a 3.100.000 del 2011. Isolare tale partecipazione da altri fattori, evidenzia come fare sport spiega il 40% dell’aumento del tasso di impiego delle donne tra i 25 e i 34 anni. L’OCSE ha calcolato che chiudere il gap di partecipazione nel mercato del lavoro tra uomini e donne può contribuire a un +1% di crescita nel nostro Paese. Gli aspetti culturali sono spesso la barriera più importante, che leggi e incentivi non sempre riescono a cambiare. E in questo lo sport può fare moltissimo. Un aumento della partecipazione femminile, soprattutto nelle discipline considerate più maschili, cambia la cultura. Perché sport vuole dire inclusione e crescita”.
L’olimpionica Manuela Di Centa, ha raccontato la sua storia personale: “Sono nata in montagna, in Friuli, sono cresciuta con il principio di parità e di normalità di famiglia. Con i valori che avevo non ho ritrovato le stesse cose nella vita di tutti i giorni, nelle prime squadre che ho frequentato. Ho trovato quelle difficoltà nel dover sempre dimostrare di essere uguale agli altri. Da quel giorno mi sono ripromessa di dover fare qualcosa per questa situazione. Ora qualcosa sta cambiando: la presenza femminile nel CIO sta crescendo, anche se su 208 Comitati Olimpici solo 11 sono al femminile. Nel 2018 dei Giochi Giovanili ci sarà il 50% preciso di presenze femminili, obiettivo eccezionale. Qualcosa va ancora fatto a livello di sport invernali. Siamo ancora lontani ma dobbiamo proseguire sulla strada intrapresa”.
Michele Uva ha invece spiegato le iniziative messe in campo della FIGC a favore del movimento femminile: “La mia fortuna di dirigente è nata con il movimento femminile, con la pallavolo ho vinto tantissimo. La FIGC negli ultimi 12 mesi ha fatto più di quello che aveva fatto negli ultimi 20 anni. Ho subito nominato Vice Dg una ragazza, di grandi capacità. Mai in FIGC si è parlato tanto di calcio femminile. Abbiamo nominato capi delegazioni nuovi, tra cui tante donne e portato 5 donne in commissioni UEFA. Dal punto di vista pratico, ora abbiamo 6 nazionali femminili, le squadre di calcio possono comprare il titolo sportivo dell’omologa femminile. Il professionismo non è la chiave per risolvere il problema della crescita dello sport femminile, la chiave è la professionalità. La professionalizzazione dei dirigenti, delle calciatrici e delle allenatrici”.
Diana Bianchedi ha parlato dell’argomento dal punto di vista medico-scientifico: “Credo che la preparazione e la professionalità fanno avanzare il nostro mondo. Prima c’erano perplessità nel far praticare certe discipline alle ragazze. Era un problema di cultura e di approccio alla tematica, c’erano carichi e preparazioni diverse. A livello scientifico c’è stato un passo avanti, conoscere il corpo femminile per studiare le metodologie migliori. Le atlete garantiscono un modello sociale e culturale diverso, per questo è importante che non smettano di fare attività fisica in età adolescenziale, quando il corpo femminile cambia”.
Valentina Vezzali ha invece sottolineato l’importanza dell’aspetto culturale: “Ho iniziato a fare sport a 6 anni, in una disciplina che veniva considerata più maschile. Mio padre era molto scettico, poi è diventato il primo tifoso. Eravamo in poche, c’era chi abbandonava, chi preferiva lo studio e chi il divertimento. Non ho fatto rinunce, mi sono arricchita in un altro modo rispetto alle mie colleghe. Oggi mio marito guida una squadra di serie B femminile. E’ dalla scuola che deve partire l’insegnamento, è un discorso civico, anche la famiglia gioca un ruolo importante. Ogni donna ha diritto di scegliere della propria vita. L’atleta-donna che diventa mamma è una casistica che va studiata. Sono riuscita a dimostrare che si può vincere anche dopo la maternità”.
Laura Coccia, ex atleta paralimpica, deputata e prima firmataria di una proposta di legge per la parità di genere, ha sintetizzato la genesi delle sue sfide normative e ideologiche. “Non si può tollerare che ci sia una situazione di disparità di diritti. Nel mondo dello sport è fondamentale dare a tutti gli atleti le stesse possibilità, per ottenere ancora più risultati, non solo a livello agonistico ma sotto il profilo sociale, in termini di benefici diffusi”.
Marco Bonitta ha invece parlato di alcune esperienze personali e del ruolo dell’allenatore: “Come Federazione abbiamo più praticanti femminili ma ancora non c’è la cultura di creare parità culturale. Una volta a Urbino, durante la preparazione alla qualificazione mondiale, le ragazze scioperarono, incassando la mia solidarietà, perché non trovavano un accordo sui premi con la dirigenza federale. Il giorno dopo vennero stabiliti i premi. Questo episodio ha dato un valore straordinario al gruppo, io ero al loro fianco, si è creata una empatia particolare, che in campo ha dato risultati eccezionali. Loro volevano essere riconosciute come gruppo di professioniste. Io ho cominciato ad allenare uomini e poi sono passato alle donne. Fu un passaggio spontaneo. Sono in poche che immaginano di sedersi in panchina in futuro, non esiste vocazioni, serve una spinta culturale”.
Gisella Bellinello Quaglio, Presidente ASD Le Rose Rovigo Rugby ha raccontato la sua esperienza: “La mia è una storia fuori dal comune. Dopo 25 anni mi sconvolge ancora che una città che vive di rugby ha una mentalità che non contempla il movimento femminile, è una guerra continua”. Maria Cristina Tonna, ex capitano della Nazionale femminile di rugby e oggi responsabile FIR del settore, ha amplificato il concetto: “Un gioco che ha una percezione fortemente maschile può essere femminile. L’anno scorso abbiamo ottenuto il 3° posto nel Sei Nazioni di rugby, battendo Francia, Scozia e Galles, fu una grande soddisfazione e sinonimo di crescita del movimento. Tramite il Sei Nazioni vogliamo qualificarci alla Coppa del Mondo del 2017”.
Valeria Panzironi, responsabile del settore legale del CONI, ha infine anticipato un’iniziativa: “Stiamo lavorando con la Fondazione Bruno Visentini per organizzare una serie di seminari che hanno come oggetto la presenza delle donne nei vari settori del lavoro e della vita quotidiana. L’idea è individuare i problemi e cercare le soluzioni, anche a livello regolamentare per trovare applicazione anche nello sport. Ci piacerebbe chiudere l’anno con proposte concrete”.
Franco Arturi, l’ideatore dell’iniziativa, ha chiuso i lavori con un intervento articolato. “Sono felice di questo scatto in avanti grazie all’impegno del Presidente Malagò. La fotografia, il grafico della pratica femminile in Italia è pari a quella delle analisi di un malato: completamente sballato. Soprattutto negli sport di combattimento. Femminilità è un termine che detesto, come virilità. Non esiste una femminilità in senso assoluto ma una in ogni donna. Una bambina che vuole avvicinarsi allo sport ha più condizionamenti da superare: come quella che la associa al termine maschiaccio, altra parola da bandire, insieme a femminuccia. Il maschilismo è imperante. E’ un condizionamento socio-culturale, perché la società è maschilista. Gli schemi mentali sono ancora cavernicoli, ne fanno le spese le donne. Esiste un ostracismo nei confronti delle donne in relazione agli sport considerati virili. Una delle cartine tornasole è quella del calcio femminile: ci sono 168 mila calciatrici in Svezia con 10 milioni di abitanti, mentre in Italia ce ne sono 20 mila con 60 milioni di abitanti, nonostante il nostro Paese sia considerato una delle culle del movimento. Stiamo perdendo un treno storico, dobbiamo invertire questa tendenza. Non esiste una femminilità ma milioni. Lasciate libere ogni bambina di scegliere lo sport che più le interessa e diverte. In Italia il problema ha una profondità maggiore rispetto ad altri Paesi, bisogna lavorare per rimuovere l’affronto nei confronti delle donne. Restituiamo loro piena dignità”.
Fonte: www.coni.it