È stata l’ultima squadra italiana ad essere eliminata da una coppa europea, dalla più importante: tra le migliori otto del continente, nel 2016, non ci sono né Juventus né Roma, ma il Brescia sì. Il Brescia Calcio Femminile, per la precisione, e se non fosse stato per il sorteggio che ai quarti l’aveva abbinata alla superpotenza Wolfsburg – già campione d’Europa nel 2013 e nel 2014 – forse ci sarebbe stato spazio per una storica semifinale in Women’s Champions League. Invece niente, doppio 3-0 e fine dell’avventura. Ma ci sono casi in cui un’eliminazione non toglie nulla al valore di un’impresa.
Del resto «la nostra presenza tra le otto squadre più forti d’Europa è da considerarsi un miracolo sportivo», diceva Milena Bertolini, allenatrice delle «gnare» del Brescia, già prima dei quarti di finale. Non era un modo di mettere le mani avanti, ma una constatazione, perché in effetti è un miracolo sportivo anche la posizione dell’Italia nel ranking Fifa femminile, al tredicesimo posto nonostante il sostanziale immobilismo federale. Per dire: gli uomini sono quattordicesimi, nonostante risorse infinitamente più vaste a disposizione, e basterebbe questo dato per capire il paradosso che separa ciò che è calcio vero e ciò che è puro dilettantismo, secondo gli schemi della Figc. Perché la differenza è proprio qui: mentre altrove il calcio femminile è cosa seria, in Italia fatica a superare il concetto stereotipato e vagamente caricaturale che ne costituisce l’immagine proiettata.
Per questo una figura come quella di Milena Bertolini è necessaria. Originaria di Correggio, ex calciatrice, da alcuni anni tecnico di successo e, peraltro, in possesso dell’intera collezione di abilitazioni professionali: per intenderci, potrebbe guidare anche i club «pro» (dunque quelli maschili) in qualsiasi categoria. Ma il riconoscimento del calcio femminile è sempre stata la sua missione, tanto che oltre quindici anni fa fu la prima donna ad essere eletta nel consiglio federale della Figc, un passo avanti che lasciava presagire scenari ben diversi. «Invece – racconta – non c’è mai stata una reale volontà di cambiamento a livello di sistema, tanto che in Europa anche chi ha iniziato più tardi ora viaggia a velocità tripla».
In Italia abbiamo 20mila tesserate, in Olanda per fare un esempio sono 140mila nonostante si sia cominciato a fare sul serio meno di dieci anni fa. Servirebbero un modello di sviluppo e nuove risorse ma, quando si parla di calcio femminile, lo si fa solamente per fare bella figura. È vero che all’inizio di questa stagione qualche mossa c’è stata. Ma troppo spesso si tratta di slogan». I numeri non mentono: nel rapporto «Women’s football across the National associations 2014-2015» redatto dalla Uefa si parla di oltre 1 milione di tesserate in Europa, 750mila delle quali Under 18, segno evidente che il pallone attrae le donne anche dal punto di vista agonistico, come tutti gli altri sport.
Per capire il livello continentale e l’interesse che crea, è indicativa l’identità delle squadre che si erano affrontate ai quarti della Women’s Champions League: oltre a Brescia e Wolfsburg, c’erano Barcellona e Paris Saint-Germain, Olympique Lione e Slavia Praga, Francoforte e Rosengard. Otto squadre, cinque delle quali specifiche sezioni delle rispettive società maschili, così come emanazione della società maschile – proprio quella di Anfield Road – era il Liverpool femminile, che il Brescia aveva eliminato in precedenza dalla competizione. In Italia, invece, per una Fiorentina che sta compiendo esattamente il percorso in quella direzione («la società dei Della Valle è l’unico club professionistico che dimostra di credere davvero nel nostro movimento», applaude Bertolini), il resto è tutto figlio dell’ingegno e della ferma volontà di sodalizi di provincia, con molte idee e poche risorse.
Appunto come il Brescia, che ha sede a Capriolo, vicino al lago d’Iseo, ma vede scendere sul terreno di gioco le proprie ragazze – dalla capitana Cernoia alla fantasista Rosucci, passando per il muro difensivo Gama – al campo sportivo di Mompiano. In sostanza, si gioca davanti a pochi eletti e nei campetti a cui fanno da sfondo le recinzioni delle villette. Il tutto mentre in Europa ci si trova al cospetto di 4-5mila spettatori (perché un seguito c’è) e in stadi reali: basti pensare che il Barcellona disputa le sue gare interne al Miniestadi, il Camp Nou in miniatura che vi sorge accanto, il Lione allo stadio Gerland – e a volte allo Stade de Lyon – e il Wolfsburg, quando l’impegno lo richiede, anche alla Volkswagen Arena. L’Uefa ci tiene – la finale di Champions si disputerà a maggio a Reggio Emilia, uno stadio di Serie A – e, per questo, lo stesso Brescia ha giocato le proprie sfide nella massima competizione europea al Rigamonti. Calcio vero. Trattato come tale.
È il problema dei problemi: si chiama professionismo. «Il gap a certi livelli diventa enorme, perché le nostre ragazze sono studentesse e lavoratrici che fanno sacrifici per questa passione, ricevono rimborsi spese ma non possono essere pagate per essere atlete e per questo devono guadagnarsi da vivere facendo altro. Poi si trovano ad affrontare chi gioca a calcio per mestiere. Non cerchiamo chissà quali stipendi – aggiunge Bertolini – ma è una questione di dignità: poter essere professioniste sarebbe il minimo». In realtà il discorso va oltre il calcio in rosa, perché è esattamente una questione di genere: la legge 91 del 1981, quella che regolò i rapporti tra società e sportivi, scrisse chiaro e tondo che lo sport femminile non poteva essere professionistico. Una legge vecchia di 35 anni, ma ancora attuale, nel senso che nulla è cambiato e che, per quanto sia vero che in alcuni alcune atlete italiane siano professioniste di fatto, de iure – insomma per il diritto del lavoro – restano dilettanti.
Rimanendo nel calcio, siamo lontani anni luce anche da questo. Risorse? Figurarsi: «Pensi che la squadra che vince lo scudetto si porta a casa come premio la coppa. Esatto, solamente il trofeo: nessun contributo, altro che televisioni e aiuti da parte della federazione». Del resto, fece epoca la frase dell’ex presidente della Lega Dilettanti che, nel corso di un consiglio del dipartimento calcio femminile, se ne uscì con un significativo «basta dare soldi a queste quattro lesbiche», finito a verbale e che gli costò quattro mesi di squalifica da parte della giustizia sportiva. Bertolini non dimentica: «A livello di vertici, nell’ultimo biennio con certe dichiarazioni si è toccato il fondo», la sua amara considerazione. E in questo è illuminante il «sinora si pensava che le donne fossero un soggetto handicappato rispetto al maschio nella resistenza e nella espressione atletica, invece abbiamo riscontrato che sono molto simili» di Carlo Tavecchio, oggi presidente federale, in una vecchia intervista a Report che ha fatto il giro della rete.
Illuminante, già, come il libro che Milena Bertolini, un vulcano di idee, ha curato per Aliberti. Uscito lo scorso dicembre, si fregia in postfazione di un’intervista a Carlo Ancelotti, reggiano come la collega, e ha un titolo icastico e provocatorio, ma per questo memorabile: Giocare con le tette. Lì dentro c’è più pregiudizio, tanto, che orgoglio, inteso come orgoglio di sistema, non come amor proprio, perché quello non manca, così come l’ironia: «Un libro storico e antropologico, per spiegare come mai in Italia la concezione del calcio femminile è questa e perché fa fatica a cambiare. Ma per cambiare bisogna prima di tutto conoscere. E la voglia di conoscere è tale che sa quanti giornalisti erano presenti alla prima conferenza di presentazione? Nessuno». Touché. Perché il cliché nostrano è ancora e sempre quello del calcio che non è – non sarebbe – uno sport per signorine. Eppure, per una volta, sono state proprio quelle che giocano con le tette, e che giuridicamente possono farlo solo per diletto, l’ultima squadra italiana a resistere sino ai quarti di una coppa europea.