L’ex tecnico del Milan Mihajlovic ha detto che il gentil sesso non è adatto a esprimersi sul pallone. Così siamo andati a parlare con Milena Bertolini, forse la donna più esperta di calcio che esiste oggi in Italia.
«Perché le donne posso parlare di calcio? Ma perché le donne possono parlare di tutto. Hanno gli stessi diritti degli uomini. Come parlano di medicina e di leggi così parlano anche di calcio». È decisa e immediata la risposta di Milena Bertolini, allenatrice del Brescia femminile, alla domanda che nasce da un’uscita tutt’altro che felice di Sinisa Mihajlovic, ormai ex tecnico, del Milan. «Io non sono razzista, ma penso che le donne non dovrebbero parlare di calcio perché non sono adatte». Questo ha detto l’ex calciatore serbo, ricevendo il tapiro d’oro dopo l’esonero, in risposta alle affermazioni di Melissa Satta, compagna del rossonero Boateng, che aveva parlato di mancata serenità nello spogliatoio milanista.
Milena Bertolini ha le carte in regola per replicare. È, insieme a Carolina Morace, l’unica donna italiana a poter allenare in Serie A, anche gli uomini. Nessun dirigente però glielo ha chiesto e non si aspetta che lo facciano. Adesso allena le ragazze a Brescia dove è arrivata fino ai quarti della Champions League (sì, meglio degli uomini).
Ha giocato in Nazionale, guida la fondazione per lo sport di Reggio Emilia ed è la curatrice di un libro che si intitola «Giocare con le tette», una frase che qualsiasi calciatrice si è sentita dire ed è una storia al femminile del calcio. Nel libro la frase del presidente della Lega Dilettanti Felice Belloli («Basta dare soldi a quelle quattro lesbiche») è definita un’ingiuria che «affonda le radici nella cultura primitiva da bar dello sport».
Alle parole di Mihajlovic ha replicato subito con un post sulla sua pagina Facebook: «Quando la cultura è improntata al rispetto della persona, quando si ritiene che l’altro abbia valore e dignità, i pregiudizi e gli stereotipi sessisti vengono eliminati»
Stereotipo sessista, non solo di Mihajlovic…
«La donna che osa entrare nel territorio recintato del calcio non è donna. Gli uomini considerano questo territorio esclusivamente maschile. È una cultura primordiale ancora esistente. Il Mihajlovic pensiero è molto radicato nel tessuto sociale».
Da noi o anche nel resto del mondo?
«Da noi all’ennesima potenza. Fuori dai confini italiani, come dicono io, nelle culture evolute, no. Il livello di democrazia di una nazione si misura da come viene considerata la donna e noi siamo ancora molto arretrati».
Il calcio femminile è particolarmente colpito?
«Io sono stata molto ostacolata nella pubblicazione del libro per esempio e non me lo sarei aspettato in una realtà come quella in cui vivo, Reggio Emilia, una città considerata all’avanguardia che quest’anno ospita la finale della Champions League femminile. Un ostracismo che mi convince ancora di più di quanto sia necessario parlare di queste cose».
È anche vero che in tv una donna in una trasmissione sportiva spesso ci finisce solo perché è bella?
«La donna nel mondo del calcio può essere solo velina o moglie del calciatore. Dico questo senza voler offendere nessuno. Non ci può essere l’opinionista tecnica o la giornalista compentente, ma nemmeno una donna nello staff tecnico di una squadra. Questa visione della donna fa sì che la nostra non sia una democrazia piena ».
Lo dimostrano anche le affermazioni dei vertici federali, il presidente dei dilettanti ha parlato del calciatrici come di quattro lesbiche…
«Quando ho sentito quello parole io ho provato rabbia, anzi proprio incazzatura, e disgusto. Il settore femminile davanti all’atteggiamento di quello che era il suo massimo dirigente ha protestato minacciando lo sciopero. Alla fine abbiamo fatto la finale di coppa Italia in un campo chiuso con l’erba alta. Evidentemente una ripicca. Da quelle frasi nulla è cambiato, la Federazione ha fatto proclami, ma non mette in campo fondi».
Si sono fatti passi avanti per le bambine che vogliono fare questo sport?
«Ci sono le bambine, ma mancano le opportunità. Le bimbe sul territorio però non trovano le strutture».
C’è sempre il limite della bellezza. Anche una sportiva ad alto livello ha più sponsor e contratti se è bella.
«Sono i valori dell’immagine e dell’apparire che valgono per tutta la società. Le capacità non vengono ugualmente valutate. Quello che trasmette un atleta non è la bellezza estetica, ma quella del gesto e dei valori sportivi».
Ci sono ragioni culturali dietro al mancato apprezzamento del calcio femminile?
«È un alibi. Paesi culturalmente simili a noi come la Francia e la Spagna, per non parlare di Germania e Stati Uniti, hanno il calcio femminile e lo ritengono importante. C’è il riconoscimento anche economico dell’atleta, c’è il professionismo (sono professioniste le tedesche del Wolfsburg che hanno battuto il suo Brescia di dilettanti n.d.r.). In Italia dopo le conquiste degli anni Settanta, siamo tornati indietro».
Una calciatrice in Italia non guadagna?
«Guadagna poco. Rimborsi spese. Se si fa male ha finito la carriera, se rimane incinta si ferma. Finché gioca ha i rimborsi, ma non i diritti di un contratto.»