Una sera qualunque, un bambino di 8 anni come tanti e una frase che nelle case italiane sarà risuonata migliaia di volte: “Papà, da grande voglio fare il calciatore”. La mamma ascolta, ma non reagisce. Il padre, inorgoglito, si alza dal divano, solleva il figlio da terra ed esclama: “Diventerai un campione”. Il giorno dopo scatta l’operazione “il nuovo Totti”: acquisto di scarpini di marca e una visita all’allenatore della squadra dove milita l’enfant prodige. “Mister, mio figlio è davvero bravo e determinato. Se ne è accorto, vero?”. Il finale di questa storia è tutto da scrivere, ma nel 99 per cento dei casi il piccolo campione abbandonerà il rettangolo di gioco. È normale.
C’è poi un’altra sera qualunque, quella in cui una bambina di 8 anni prende coraggio e davanti ai genitori afferma: “Mamma, papà, dovete iscrivermi a una scuola di calcio. A me la danza fa schifo”. La mamma ascolta, cerca di capire le ragioni della figlia. Il padre è preoccupato e, nel peggiore dei casi, comincia a dubitare della sanità mentale della bambina. Chissà quale strana patologia avrà attaccato il corpo di questa sventurata calciatrice. Il finale di questa storia è incerto. E non è normale.
Partiamo dal mondo dei media. “Vere” dirette TV delle partite della nazionale femminile, allenata da Antonio Cabrini, nemmeno a parlarne, per non considerare poi i luoghi comuni e le offese che si sprecano durante le trasmissioni. L’ultima penosa figura è di Sinisa Mihajlovic: “Le donne non devono parlare di calcio perché non sono adatte”.
Con buona pace di Mihajlovic, il fenomeno del calcio femminile è in crescita e per la sua definitiva esplosione è solo una questione di tempo. Il numero delle bambine e ragazze che giocano a calcio è cresciuto dell’88 per cento negli ultimi sette anni: nel 2015 erano 22.564 le calciatrici (di cui 10.722 sotto i 18 anni) tesserate in 702 squadre.
I nostri cugini europei sono avanti anni luce. Il Bayer Monaco, il Paris Saint Germain, il Barcellona e il Chelsea, tanto per fare alcuni esempi, vantano una squadra femminile. E non è nascosta in un campo abbandonato di periferia per evitare brutte figure o prese in giro. Non bisogna andare a Parigi per verificare. È sufficiente una visita al sito internet del PSG, sezione “teams”, e il menu a tendina si aprirà con Ibrahimovic e compagni da un lato e la squadra femminile dall’altro.
Le differenze in comunicazione sono niente in confronto a quelle sul campo. Se in Italia le calciatrici sono spesso costrette ad allenarsi nei ritagli di tempo e sono relegate nella categoria dei dilettanti, le calciatrici del PSG o del Bayern Monaco sono considerate vere e proprie professioniste. In altre parole, per una donna giocare a calcio in Europa può diventare un lavoro, in Italia non si va in genere oltre l’hobby. “Noi andiamo avanti grazie alla passione e alla professionalità di tante ragazze”, dice con tono fiero Marco Palagiano, presidente della Roma Calcio Femminile, una delle società più antiche ma che non ha nulla a che spartire con la Roma di James Pallotta. In Italia, infatti, l’affiliazione tra squadre maschili e femminili è avvenuta solo nella Fiorentina e nella Lazio. A Firenze le ragazze si allenano cinque volte a settimana con il paradosso di vivere una vita da atlete professioniste ma di giocare in un campionato di dilettanti.
Ma qualcosa, molto lentamente, sta per succedere all’orizzonte. La FIGC con alcuni provvedimenti sta tentando di invertire la rotta: a esempio per la stagione in corso ha obbligato le società di serie A e B maschili ad avere una squadra femminile under 12 con almeno 20 tesserate. Una goccia nell’oceano che però sta smuovendo le acque. Ma la palla sta anche nella metà campo dei genitori. A partire dalla mia: se mai avrò una figlia femmina che vorrà giocare a calcio, sarò io a non andare nel pallone.