In occasione della giornata contro la violenza sulle donne, propongo un articolo sulla discriminazione di diritto sportivo ancora “vigente” nel calcio femminile. Il calcio e le norme che lo regolano rappresentano da sempre un’isola deserta nel mare dell’ordinamento giuridico ordinario: lo sport in generale e il calcio femminile in particolare, sono esempi delle peculiarità giuridiche che non dovrebbero esistere.
In Italia, l’art.1 del Codice delle parti opportunità tra uomo e donna inizia definendo l’ambito di applicazione della normativa: “La parità di trattamento e di opportunità tra donne e uomini deve essere assicurata in tutti i campi, compresi quelli dell’occupazione, del lavoro e della retribuzione”. Di conseguenza, è normale aspettarsi che il calcio femminile rientri in “tutti i campi”, ma, come possiamo immaginare, non è così.
Tra i comportamenti vietati dal citato codice, non vi è solamente la discriminazione diretta[1], ma anche la sua vertente meno aggressiva, cioè la discriminazione indiretta.
L’art.25 c.2, di tale codice stabilisce infatti: “Si ha discriminazione indiretta, ai sensi del presente titolo, quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri mettono o possono mettere i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto a lavoratori dell’altro sesso […][2]”.
Disposizione, criterio, prassi e comportamenti sfavorevoli apparentemente neutri che si verificano tanto a livello nazionale come internazionale nelle norme che regolano il calcio femminile. A livello nazionale, un esempio di come venga applicata la discriminazione indiretta al calcio femminile è l’art. 29 delle NOIF della FIGC che stabilisce: “Sono qualificati “non professionisti” i calciatori che, a seguito di tesseramento, svolgono attività sportiva per società associate nella L.N.D., giocano il “Calcio a Cinque”, svolgono attività ricreativa, nonché le calciatrici partecipanti ai campionati di Calcio femminile”.
Il “nonché” usato equipara tristemente le giocatrici di Serie A con i giocatori dilettanti di terza categoria, ma soprattutto con i giocatori amatoriali che si allenano e giocano con un’organizzazione minima o inesistente: la differenza tra il lavoro svolto dalle giocatrici della massima serie e i giocatori che svolgono attività ricreativa è piuttosto evidente.
Come esposto in un precedente articolo[3], a norma della legge 23 marzo 1981, n.91 è il CONI insieme alle Federazioni Sportive nazionali, l’ente pubblico che attribuisce la qualifica di sport professionistico.
Tra i pochi sport riconosciuti come professionistici in Italia, c’è il calcio (oltre ai soli basket, golf e ciclismo) ma non il calcio femminile: considerando che anche le giocatrici disputano lo stesso sport con le stesse regole di quello maschile, non è forse questa una disposizione, un atto apparentemente neutro che finisce col discriminare il calcio femminile?
A livello internazionale invece, lo Statuto della FIFA, edizione di agosto 2018, inizia ricordando che: “Terms referring to natural persons are applicable to both genders. Any term in the singular applies to the plural and vice-versa”.
Esplicitamente quindi viene affermato che non ci saranno distinzioni né discriminazioni: allora perché certe norme non si applicano alle giocatrici?
Perché ad esempio, le indennità di formazione sono state abolite (invece di essere proporzionali al salario delle giocatrici) nel calcio femminile con la circolare n.1603 del 24 novembre 2017 mentre nel calcio maschile sono una fonte d’ingresso fondamentale per i clubs?
Allo stesso modo, la stessa formula protettrice dei “both genders” la troviamo nell’incipit del Regulations on the Status and Transfer of Players della FIFA che però, è proprio il regolamento che ha reso possibile l’abrogazione dell’indennità di formazione per le giocatrici. Nonostante l’Unione Europea si sia espressa con la risoluzione del Parlamento Europeo del 10 marzo 2015[4] contro la discriminazione nello sport e il Consiglio Europeo abbia emesso Conclusioni sulla parità di genere nello sport[5], possiamo vedere come, ancora oggi, ci sia un’evidente disparità di trattamento, avallata da norme giuridiche e applicata “in tutti i campi” del calcio femminile.
[1] Art. 25 c.1: “Costituisce discriminazione diretta, ai sensi del presente titolo, qualsiasi disposizione, criterio, prassi, atto, patto o comportamento, nonché l’ordine di porre in essere un atto o un comportamento, che produca un effetto pregiudizievole discriminando le lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso e, comunque, il trattamento meno favorevole rispetto a quello di un’altra lavoratrice o di un altro lavoratore in situazione analoga”.
[2] Art.25 c.2: “Si ha discriminazione indiretta, ai sensi del presente titolo, quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri mettono o possono mettere i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto a lavoratori dell’altro sesso, salvo che riguardino requisiti essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa, purché l’obiettivo sia legittimo e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari”.
[3] “Il professionismo nel calcio femminile” in https://www.calciofemminileitaliano.it/diritto-sportivo/il-professionismo-nel-calcio-femminile/
[4] Art. 44 della Risoluzione: “Invita gli Stati membri, a seguito dell’adozione delle conclusioni del Consiglio sulla parità di genere nello sport, a sfruttare appieno le possibilità offerte dallo sport per promuovere la parità di genere, in particolare definendo dei piani d’azione concreti per lottare contro gli stereotipi e la violenza, per favorire l’uguaglianza tra i professionisti dello sport e per promuovere lo sport femminile”.
[5] Conclusione n.10: “La questione della parità di genere nello sport è già oggetto di grande attenzione in certi Stati membri. Qualcosa è anche stato fatto a livello locale, regionale ed europeo e a livello del movimento sportivo inter nazionale, ma la parità di genere non ha raggiunto un grado accettabile e ancora manca, all’interno di molti Stati membri e del movimento sportivo internazionale, l’attuazione di misure concrete”, in https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:52014XG0614(09)&from=IT
Credit Photo: Sport Reporter – Simone Forzan
Per quale motivo la discriminazione sarebbe “indiretta” ? A me sembra, da sempre, molto molto diretta e ben indirizzata !
È indiretta perché ad esempio, la FIFA, con la circolare n. 1603 ha abolito l’indennità di formazione per tutti i clubs femminili di tutti i paesi del mondo considerando che il pagamento di quelle indennità fosse un ostacolo allo sviluppo del calcio femminile: “it should be noted that the existing training compensation formula would be act as a deterrent to the movement of female players and consequently stall the development of the women’s game”.
Quando Cristiano Ronaldo è stato acquistato dalla Juventus, i clubs che formarono il portoghese ricevettero una percentuale del trasferimento: il Nacional de Madeira 250 mila €, lo Sporting Lisbona 2,25 milioni di € e infine, il Manchester United 2,5 milioni.
Se invece un club femminile italiano vende una giocatrice all’estero, allora non ha diritto a nessuna indennità.
Quindi, se consideriamo quello che stabilisce il codice delle pari opportunità, o quanto stabilisce la UE in materia, una norma come quella della FIFA, apparentemente neutra e voluta per il bene del calcio femminile, finisce invece col discriminare e molto, tale settore.
Poi certo, il calcio femminile, nonostante le varie iniziative, è discriminato in maniera diretta e considerato alla stregua del calcio amatoriale.