In questi giorni un amico, entrato nel mondo del calcio femminile solo recentemente, mi ha scritto: “poi un giorno mi racconterai di quella corazzata chiamata Torres”
Sono un po’ restia nel celebrare pubblicamente quello che ha rappresentato quella squadra, in primis perché ne facevo parte e cerco di sfuggire da ogni sorta di autocompiacimento, in secondo luogo perché l’eccessivo slancio nostalgico può anche risultare un tantino spacca maroni, diciamo la verità.

Riflettendoci però, e spogliandomi da ogni condizionamento esterno, in questi giorni nei quali quello slancio nostalgico (spinto più o meno indietro cronologicamente) è l’unica cosa alla quale aggrapparci, penso che “quella corazzata chiamata Torres” merita di essere un po’ raccontata.
Perché, assieme ai club con i quali si scontrava, è parte dell’iceberg che si cela sotto la Serie A attuale, sotto lo Juventus Stadium con 40 mila persone, sotto le dirette Sky, sotto le “ragazze mondiali”, sotto tutto quello che vediamo al giorno d’oggi e che viene, giustamente, celebrato a dovere; perché raccontare delle imprese del passato aiuta a non dimenticarsi mai da dove veniamo, e perché è importante per comprendere che le cose straordinarie sono possibili e non nascono da presupposti straordinari, ma innanzitutto da persone ordinarie mosse da grandi cuori e grandi spiriti d’animo.

Se c’è un giorno in cui questa storia si possa dire ebbe inizio fu certamente il 19 dicembre del 2009 : Bardolino – Torres, ottava giornata del campionato di Serie A.
Lo scenario storico sportivo era il seguente : Bardolino campione d’Italia in carica da tre anni consecutivi. Solo per fare qualche nome vestivano quei colori giocatrici del calibro di Tuttino, Brunozzi, Gabbiadini, Valentina Boni, Giorgia Motta, Vivi Schiavi, due giovani Girelli e Parisi e così via.
Avevamo spezzato soltanto per un istante l’incantesimo gialloblu in quegli anni, andando a vincere la Coppa Italia, battendo in una doppia finale proprio lo squadrone veronese, nel giugno del 2008: sconfitte per 3 a 2 in Veneto, ribaltammo poi il risultato sull’isola grazie ad un gol di Sandy Iannella che mi è costato, per via di una scommessa (“se vinciamo 1 a 0 con un tuo gol te lo regalo!” ), un ambito asciugamano nero rubato da un albergo in Svezia.

Tornando al dicembre 2009, ricordo non fu una trasferta facile, maltempo in tutta Italia, neve e ghiaccio, se la mia memoria non difetta mi sembra incontrammo non pochi imprevisti per raggiungere Bardolino.
Arrivammo in ritardo sulla tabella di marcia a Parma dove pernottammo. Nevicava copiosamente. Iniziavano a circolare dubbi che si sarebbe riuscito a disputare la gara. Non nasceva sotto una buona stella quel big match.
Il mattino seguente la neve era aumentata, durante il viaggio in pullman ci arrivavano foto del campo di Calmasino completamente innevato.
Gli sguardi e le voci:“non si gioca vedrai non si gioca”.
“Si gioca. Si gioca. Continuiamo a pensare che si gioca!” tuonava Tore Arca (il mister) dai posti davanti, cercando di evitare qualsiasi calo di tensione.
Ricordo come se fosse oggi quell’attesa, quell’apprensione, ed una cosa è certa, noi volevamo giocare. Ricordo la voglia e il furore che ci animava quell’anno, la rabbia agonistica di voler superare l’avversario , di volerci finalmente imporre. Eravamo tigri affamate tenute in gabbia e liberate di fronte alle prede al fischio iniziale.

Dopo otto anni dall’ultimo scudetto, otto anni trascorsi a collezionare secondi posti, la Torres doveva tornare agli antichi fasti. Avevamo imparato a perdere, avevamo imparato a reagire a sconfitte umilianti, avevamo imparato ad onorare quella maglia a prescindere dalla classifica, avevamo imparato l’orgoglio nel vestire quei colori, nel rappresentare quel popolo, prima di allora, prese singolarmente, forse non eravamo le giocatrici più forti in circolazione ma avevamo fatto tesoro di queste cose che si erano trasformate negli ingredienti che ci avrebbero reso la squadra da battere da lì ai successivi quattro anni.
I tempi erano maturi, noi lo sapevamo, il resto d’Italia ancora no ma noi lo sapevamo in cuor nostro e volevamo solo uscire e farlo vedere a tutti.

Seduta al mio posto in pullman pensavo già in clima partita: “più ostacoli incontri nel tuo cammino, più la meta che devi raggiungere è importante. Oggi si gioca ragazze.”
E si gioca. Il campo è ghiacciato, si sta in piedi a malapena, le condizioni sono proibitive ma non ricordo mezza compagna di squadra lamentarsi.
Tore Arca prima della gara ci dice che non cambierebbe nessuna giocatrice gialloblu per una di noi, “Nessuna!” enfatizza. Lo guardo negli occhi e vedo che ci crede davvero (anche se la stagione successiva arriverà in rossoblu Giorgia Motta proprio da quel Bardolino).
Ci crediamo anche noi.
Dopo 36” dal fischio d’inizio passiamo in vantaggio.
Dopo 36” dal fischio d’inizio si possono contare sei giocatrici rossoblu nei 25 metri a ridosso della porta difesa da Carla Brunozzi, per dare l’idea dell’onda d’urto che si abbatté sulle campionesse d’Italia. Il Bardolino è una grande squadra, prova a reagire, ma con Panico e Tona al 28′ il risultato è sul 3 a 0. Si vede da tante piccole cose che quella non è una partita qualunque, quello è il nostro capolavoro, dipinto senza sfumature su sfondo bianco in soli ventotto minuti, si vede da come si propone Manieri sulla sinistra, si vede da come mi tuffo su quel pallone basso che proprio Raffa mette in mezzo, si vede da come si piega a terra Elisabetta Tona dopo il gol nello sfogare tutta la rabbia. Si vede.
La prima frazione terminerà 4 a 0. Il momento è storico. È il passaggio di consegne. L’italia ancora pensa ad una giornata “no” delle venete, alle difficoltà del campo ghiacciato, ma noi no, noi lo sappiamo. Lo scettro è passato a noi, soltanto che ancora non tutti possono vederlo. Andiamo a +4 dal Bardolino.

La gara di ritorno al Vanni Sanna è un’altra prova di forza, mancano sole tre partite al termine, manteniamo ancora quel vantaggio di 4 punti, ma non ci basta.
Quando vinci e non sei considerata ancora la squadra più forte non ti basta vincere, devi convincere, devi stravincere. Avevamo grandissimo rispetto delle nostre avversarie, tante di loro compagne in maglia azzurra, ma eravamo animate da un desiderio profondo e ancestrale di surclassare qualsiasi cosa si ponesse sul nostro cammino.
Michela Rodella sostiene che non eravamo una squadra “ma una macchina da guerra” ed è il tentativo più riuscito di descrivere lo spirito che animava quella squadra, per di più partorito da un’avversaria storica, dunque più che mai credibile.
Scendiamo in campo volendo dimostrare che il risultato dell’andata non è stato un caso: dopo 40” Iannella sigla l’uno a zero in un surreale “copia-incolla” di qualche mese prima, stavolta sotto un cielo azzurro e sopra un campo verde.

A volerlo immaginare non avremmo osato tanto.

Nell’azione del gol, insieme a 4 -5 rossoblu, si intravede anche il capitano, Elisabetta Tona (centrale difensivo), in piena trans agonistica buttarsi con foga dentro l’aerea avversaria.
Non so davvero a 40” dal calcio d’inizio che cosa ci facesse lì, ci abbiamo riso spesso rivedendo le immagini a distanza di anni, ma penso sia la rappresentazione ideale dell’anima spavalda di quel gruppo.
In mezzora siamo sopra di tre gol, esattamente come all’andata.
Una volta può succedere per caso, ma due volte no. Nessuno poteva più chiudere gli occhi di fronte a questo, ci eravamo riuscite.

Il nostro portiere, Michela Cupido (cognome evocativo per l’ultimo baluardo a difesa delle nostre gesta) parerà anche un rigore ad una certa Cristiana Girelli, a testimoniare l’ineluttabilità del destino che aveva ormai ceduto il passo a quelle ragazze quasi tutte “continentali”, adottate dall’isola, che vestivano con orgoglio quella seconda pelle rossoblu e cantavano in una lingua “straniera”, ma ormai familiare, l’inno del loro amore: “avanti forza forza torres di lu me’ cori, la vittoria si sa, sempre nosthra sarà.”
Restammo imbattute, con 7 punti di vantaggio fino alla fine, festeggiando, la settimana successiva, il ritorno del tricolore in Sardegna, un ritorno atteso e cercato per otto lunghi anni.
Non ho raccontqto la nascita di quella corazzata, quella nacque e crebbe lentamente e silenziosamente negli 8 anni precedenti, con le sconfitte e la pazienza e la passione e l’amore e la resilienza, ma è così sicuramente che si manifestó a tutti.
Ed è soltanto una delle numerose storie che aspettano di essere raccontate.

 

Credit Photo: Florentia Calcio Femminile