Un giorno ti diranno “non sei più la stessa, sei cambiata”, e suonerà come un’accusa, ma tu non dar retta a chi ti vuole sempre uguale: me lo diceva mia nonna, forse… io lo dirò a mia figlia, sicuro. Una donna non cambia, si evolve; non invecchia, matura; non si accontenta, sceglie; non si arrende, riassembla il coraggio. Ecco perché ci sono donne che non finiscono mai. E sono le streghe del nostro tempo, le streghe del pallone, le belle streghe, quelle che fanno le magie, che durano nel tempo, che al punto vanno a capo, che non scompaiono ma svoltano gli angoli e cambiano direzione.
Donne che non finiscono mai. Nemmeno quando sarebbe il tempo, per non dire l’età, della grande scelta, quella che ti impone un riordino ambientale ed emozionale della vita. Si svolta, dunque. Nessun bivio per donne così. Piuttosto passaggi, in vite scandite da stagioni che vanno da agosto a maggio, più o meno. E di stagione in stagione, di magia in magia, le belle streghe che vi voglio raccontare stanno per vivere e scrivere un nuovo passaggio. Panico, Masia, Di Bari in comune hanno il calcio, la Lazio, la longevità, l’amicizia, i muscoli e l’abnegazione allenati alla resistenza: due svoltano l’angolo, l’altra torna indietro, in un certo senso, riprende il filo e ricomincia… per andare, definitivamente andare.

PATRIZIA DEI MIRACOLI. Per gli amici è soltanto Pa. Pa, come Patrizia. Pa, come Panico. Occhi profondi, mani nodose, muscoli tesi, voce bassa e gambe storte, il segno particolare, il difetto che si fa vezzo, perché su quelle gambe ha macinato chilometri su campi d’erba, con quelle gambe ha dato potenza ai piedi per fare più di 600 gol. “Quest’anno smetto”, una frase che si rinnovava come un ritornello alla fine degli ultimi campionati, o come una minaccia che non si concretizzava mai. Ora, a 41 anni, ha davvero annunciato il ritiro dal calcio giocato.
Sì, vabbé, dinne un’altra Pa… Si fa fatica a crederle soprattutto se dice di smettere mentre scuote energicamente i capelli ancora bagnati dopo una partita di tre contro tre, il calcio in una gabbia in cui la regola è che non ci sono regole, dove mentre le avversarie esultano Panico non si incanta e di gol ne segna due. Se la ride la bomber. Non scherza però, si ritira davvero. Ritira la sua faccia seria da gol, lo sguardo che punta la porta con l’espressione di chi sta inventando la soluzione e l’istinto all’invenzione. Panico, numero uno per sempre, per i suoi record assoluti (più di 600 gol tanto per dirne uno) e per la sua longevità a livelli altissimi (a 40 anni ha vinto da protagonista lo scudetto col Verona, e a 41 ha lottato con la Fiorentina fino all’ultima giornata per un posto in Champions e ha chiuso con 20 gol segnati, vicecapocannoniera). Certe donne, un po’ streghe non finiscono mai, al massimo ricominciano. E Panico ricomincia dagli uomini. Per segnare un nuovo record: la prima donna nello staff di una nazionale maschile. La Figc ha scelto lei come secondo allenatore dell’Under 16 di Zoratto.
Non c’era modo migliore per dimostrare che una come Panico è un serbatoio di tecnica ed esperienze e soprattutto di umanità. Ha fatto bene la Federazione a darle l’opportunità di continuare la sua vita nel mondo del pallone, dopo averla spesa e sacrificata per il calcio e senza certezze sul  futuro. Spetterebbe alla maggior parte delle calciatrici che vivono come acrobate appese e sospese in un vuoto che si riempie di stagione in stagione, che accumula passato e non prevede il futuro. Così Patrizia fa da apripista, come spesso le capita, si espone con garbo, umiltà e senza arroganza. E senza chiedere di guardarle le spalle, ha sempre fatto tutto da sola.
E’ una delle sue magie anche questa. Diventando allenatore in seconda di una Nazionale maschile, sfonda un altro muro: quello della discriminazione di genere. Un miracolo. Ha aperto una breccia, che farà bene alle calciatrici che verranno dopo di lei. Patrizia dei record e dei miracoli se riuscirà, come sono convinta, a stregare gli uomini. Così come ha sempre stregato tutti, fin da bambina, da quando era “Bruscolo” e mandava avanti il pallone, arma e scudo per la sopravvivenza, in un quartiere dove “o lotti o soccombi”, dice. L’hanno fatta bomber perché servivano i suoi gol, ma lei voleva essere centrocampista, “perché è là che nasce il gioco. E’ di là che vedi tutto”. E con quest’anima da centrocampista,  Pa…, per indole, cuore e cultura, si rimette in gioco, uscendo dal guscio della femminile, dove è stata e rimarrà regina, per conquistare un posto per sé e per tutte le donne, lì dove gli uomini alzano le barricate per difendere il mondo del calcio, che non appartiene solo a loro.

LA GIOIA DI UN FIGLIO. Le fanno già gli auguri, ma andiamo piano… il figlio ancora non c’è. Gioia Masia da Sassari, che sognava di vivere a Roma dove infatti è finita. Difensore mastino, una che morde le caviglie. A ogni partita si consuma, perché corre come saetta, con la coda alta che mulina aria e la spinge avanti. “Ajò”, l’accento mai perduto che le fa da cassaforte al “chi sono, da dove vengo”, sarda per sempre, senza subire violazioni a un’origine che si fa nostalgia, come per tutti quelli che lasciano la terra, specie se è un’isola.
Gioia è ironica, dissacrante, con la battuta pronta, ama i cani e vuole un figlio. Succede a molte donne. “Smetto”… Mancano pochi mesi ai 40 anni, e saranno due almeno che dice “smetto perché devo fare un figlio”. E, anche lei, questa volta fa sul serio.
Dopo anni di su e giù per l’Italia, con base a Roma, la sua seconda città, la sua nuova famiglia, col suo compagno Giampiero Serafini – suo ex allenatore  – il figlio diventa una scelta che impone un’altra scelta. Un’atleta spesso aspetta i quarant’anni per avere un bambino che ferma e condiziona la carriera. Prima di allora non è mai il momento giusto. Masia ha attraversato il Continente, isole comprese, rotolando su un pallone e ora è tempo della grande scelta. Ha appena vinto il campionato col Chieti e sembrava impossibile che non continuasse. Un’altra stagione di serie A, l’ultima A… Niente. Questo è un tempo finito per Gioia,  finito alla grande però, per risultati e prestazionie. Sul più bello, come si dice.
Il futuro reclama attenzione. Alt gioco. Il calcio si è preso gran parte della sua vita, per dedizione e sacrificio e amore. Ora tocca ad altro. Passaggi… Non è mica facile essere atleta e mamma nello sport. O l’una o l’altra, prendere o lasciare. Di solito e spesso si lascia che il tempo vada oltre perché domani è meglio di oggi per una maternità; finché quello stesso tempo di cui ti senti padrona, ti viene a ricordare che inizi a essere “vecchia”,  ti devi sbrigare. Cosa aspetti? Si aspetta che passi la voglia di giocare o si aspetta di trovare un lavoro. Masia non aspetta più, il tempo è suo e amministra il suo passaggio di vita. Poteva chiudere con un altro campionato di serie A con il Chieti, invece giocherà a calcio a cinque, in attesa di un figlio che non è ancora arrivato e già le ha cambiato la vita. Non sarà più la stessa. Con Gioia però.

DIBBA, IL GIRO DI CAMPO CHE NON T’ASPETTI. E per due che si fermano e cambiano mestiere o ruolo, ce n’è una che ricomincia da dove era rimasta. Daniela Di Bari porta il Chieti in serie A e ci resta, non come aveva fatto con l’Acese promosso e abbandonato. Dibba per tutti o la Dibba di tutti. Mani preziose per mestiere, piedi ovunque per passione. L’ultima serie A risale al suo ultimo campionato con la Lazio. Era il 2012 quando un passaggio forzato le ha portato via l’unica maglia che si sia sentita addosso come pelle, la maglia con cui è nata calciatrice e con cui sognava l’ultimo giro di campo. Per mai indossare altri colori. Ma certe storie, anche quando sono d’amore, si saturano, si ricattano, non si comprendono, si allontanano.
Daniela ha detto basta ai compromessi con l’incoscienza del dolore ma la consapevolezza di non farcela più ad andare avanti. Ha accettato le conseguenze di una fine imposta. Sognava l’ultimo giro di campo con la Lazio, con il suo 4 biancoceleste e invece ha raccattato la sua roba, convinta di non riuscire a giocare più da nessuna parte. Non ha fatto i conti però con la passione che ti identifica e ti fa essere:  il calcio è andato a bussarle alla porta, a tirarle sassi alla finestra per farla scendere a giocare a pallone. Due anni di assestamento al Cassino, per capire che senza Lazio è un buco nel cuore, ma senza calcio non ci sa stare. E altri due anni per ricordarsi la calciatrice che è e cosa può dare. Due promozioni in A nelle ultime stagioni. Quella di pochi mesi fa, col Chieti le ha solleticato l’anima. Per due che smettono, una che riprende il suo posto in serie A, dove aveva giocato l’ultima volta cinque anni fa. Sembra impossibile eppure è così: il ritorno in A è il passaggio definitivo alla possibilità di essere altro e andare oltre i vecchi amori.
A 37 anni Daniela Di Bari può permettersi la serie A, e fosse l’ultima val la pena che se la giochi come avrebbe voluto giocare la sua ultima partita con la Lazio. E alla fine, dovunque si troverà a fare l’ultimo giro di campo, una volta per tutte Daniela capirà di non aver tradito e tutto sommato di non essere nemmeno stata tradita. La sua Lazio sarà per sempre una parte bella della sua storia. Ma al di là di quelle pagine scritte, c’è tutto un mondo che chiede di essere esplorato e vissuto, con l’entusiasmo che le monta all’improvviso, le sale su per la pancia,  l’emozione pulsa, non lo trattiene, e ogni giorno è un buon giorno per innamorarsi ancora.

QUELLE CHE… NON SEI PIU’ LA STESSA. Eccole dunque tre storie e tre esempi. Ho deciso di raccontare questi passaggi mentre la Pellegrini mancava la medaglia olimpica e piangeva. Commuoversi ancora dicendo “ho versato tutte le lacrime, non credo di averne più”,  e mandando giù il nodo salato che le bloccava il respiro e le toglieva la voce, fa ancora più grande questa atleta a cui dicono che a 28 anni è “vecchia” per pensare a un’altra Olimpiade. “E’ tempo di cambiare vita, forse”, e quel forse è diventato subito un “finire così no”.
Finire… Le donne che ho raccontato sono quelle che non finiscono mai. Che sempre da se stesse hanno ricominciato. A dispetto di uno sport maltrattato come il calcio, a dispetto dell’età che avanza, a dispetto della precarietà, a dispetto delle delusioni. A dispetto di tutto, le donne che non finiscono mai sono quelle svoltano gli angoli lasciando scia.
Alla Fede nazionale diranno “non sei più la stessa…”, e per forza, dopo una cocente delusione che è dolore, non si può essere uguali a ieri. Glielo diranno come un’accusa senza sapere che la donna che asseconda e non contrasta il mutamento è quella che accetta l’evoluzione e i suoi passaggi… Non bisogna dar retta a chi ci vuole sempre uguali. Nelle lacrime della Pellegrini, c’è tutta la bellezza, la nudità e la magia di una donna che oggi è sirena e domani sarà una grande strega.