Era il 1968. Stadio Olimpico di Città del Messico, e i velocisti Tommie Smith e John Carlos hanno appena conquistato la medaglia d’oro e quella di bronzo nei 200 metri. Il tempo di salire sul podio e, sulle prime note di The Star-Spangled Banner, alzano il pugno sinistro con un guanto nero. Non cantano l’inno. Per protesta. Il Cio chiede la loro esclusione dai Giochi e, tornati in patria, subiscono intimidazioni e critiche.
Anno 2019, più di cinquant’anni dopo, siamo in Francia, ai Mondiali femminili di calcio: la bomber Megan Rapinoe non canta l’inno, resta muta. Ascolta silenziosamente. Immobile. E così sarà per tutte le partite del mondiale di calcio femminile. Tutto questo per protesta, dichiarandone apertamente il motivo anche prima della partenza per la kermesse, così come aveva fatto Colin Kaepernick nel football americano nel 2016, al fine di portare attenzione sulle discriminazioni delle persone afroamericane e, in generale, sulle politiche dell’attuale presidente USA Donald Trump riguardanti immigrati e integrazione sociale.
Ossa non troppo lunghe e leggere come quelle degli uccelli, spalle aperte da tennista e un viso corto e serioso, rasserenato da due grandi occhi marroni di una dolcezza infantile, che fa quasi da contrasto ad un ciuffo color lilla. Si muove per il campo trascinando i piedi, il collo lievemente piegato sotto il peso della testa in un portamento al contempo vagamente indolente e allusivamente feroce.
Conta i passi in avanti e indietro per tenere la posizione rispetto all’avversario, e quando finalmente la palla arriva, la aggancia coi piedi come io o voi potremmo fare con le mani. La fa aderire agli scarpini senza lasciare luce, e se decide di puntare la porta abbassa la fronte e accelera di colpo, a passettini corti e velocissimi, come se volesse incornare il portiere. Ma non è solo in prossimità dell’area di rigore che si manifesta il suo genio apollineo: se è costatato chiaramente che nei sedici metri conosce angoli dello spazio e del tempo che per le altre sono inaccessibili, lei arriva a colpire anche nell’angolino più remoto delle coscienze altrui. Arriva a calciare in porta e nelle coscienze delle persone sempre attraverso la linea più breve, solo che la linea più breve per lei è impercettibilmente diversa da quella che vediamo io, voi, e soprattutto i difensori avversari. Tratta i decimi di secondo delle parole e dell’area di rigore da alleati, e in cambio il tempo gli regala l’istante che gli serve a spezzare il respiro non solo di portieri e difensori, ma soprattutto di detrattori discriminatori.
La storia collettiva che diventa storia individuale e Megan che oscura gli altri 21 in campo e le migliaia sugli spalti, abbracciando lo spirito di rivalsa come una disciplina e come un vizio preso in eredità, e col compito di essere divulgato.
Lei è Megan Rapinoe. Lei è il capitano della nazionale femminile a stelle e strisce. Lei, una delle prime calciatrici a fare outing sulla propria sessualità. Lei, che lo aveva fatto tutto questo anche prima dei Mondiali: stella dei Seattle Reign, chiudeva il Mondiale con 5 reti.
Megan non è solo una calciatrice, un’ala tra le più forti del mondo, abile nel dribbling, veloce nel primo tocco, spietata sotto porta e capace di costruirsi una carriera longeva tanto da essere ancora ai vertici a 33 anni grazie ad un atteggiamento perfettamente professionale. No, Megan Rapinoe è anche altro: una combattente, la più politica tra le calciatrici di tutto il mondo, fiera oppositrice delle opprimenti politiche del presidente, orgogliosa sostenitrice dei diritti LGBTQI.
La sua vita è esattamente una missione, una grande corsa non solo verso un pallone, ma soprattutto verso i diritti: i suoi, quelli di chi è costretto a sentirsi una comunità, quelli degli ultimi in generale. Lei è scelto subito di alzare la voce, di combattere per coloro che non hanno un domani sicuro, che sono incerti nel loro futuro non coperti da sicure leggi, e per far sì che non abbiano paura di sentirsi persi. Una condizione in cui lei si è sentita e che ha deciso non dovrà più esistere per nessuno.
Da lei si sono mossi i primi passi rivoluzionari, alzando la voce racchiusa in un unico coro, quello delle calciatrici che ad oggi sono semplicemente donne che chiedono vengano rispettate nei diritti di tutti, che spesso sono oggetto di censura, pregiudizi e stereotipi ghettizzanti e marginalizzanti, tanto da stigmatizzarle in una tripla devianza: quella di essere donne ribelli ai costumi dell’epoca, di esercitare un’arte ancora oggi considerata marginale rispetto ad altre espressioni sociali, quella di essere calciatrici libere di vivere la loro sessualità e dunque per tradizione individui un po’ “devianti”, o stravaganti nel migliore dei casi.
Ed è giusto che all’indomani della prima premiazione assoluta delle 11 migliori calciatrici italiane, all’evento del Gran Galà AIC, il calcio femminile nella nostra penisola venga riconosciuto allo stesso modo di quello maschile. Questa non è una battaglia salariale, e magari lo fosse, perchè vorrebbe dire che le nostre calciatrici sono già professioniste al pari dei maschi.Siamo ancora un passo indietro, alla richiesta di tutele di base. E non sembri che si voglia puntare sempre e solo sul calcio, ma resta il fatto che il calcio femminile ha delle potenzialità enormi e gode di una visibilità che andrebbe poi a vantaggio di molti altri sport e di molte altre atlete. La società italiana è cambiata, la cultura è cambiata e non è ammissibile appellarsi a una legge vecchia, inadeguata e vaga, come la 91 del 1981, perchè il diritto del lavoro deve entrare in questa problematica e aiutare a trovare gli strumenti flessibili per sostenere tutte le ragazze che vivono di sport. Stiamo parlando di diritti costituzionali di base, non è più ammissibile lasciare le cose come stanno.
Megan, in questo mondiale, ha preso per mano le sue compagne e quelle di tutto il mondo calcistico, chiedendo a gran voce semplicemente un trattamento uguale a quello riservato ai maschi, oltre alle condizioni di allenamento migliori e premi più cospicui. Chiedono semplicemente di avere parità di diritti e dignità anche nello sport.
Ha 33 anni e questo potrebbe essere stato il suo ultimo Mondiale. Eppure lei ha pensato più in grande, ha pensato al progresso, ai diritti di tutti. Anche per questo è tra le più amate dalle sue compagne di squadra, che l’hanno scelta come capitana indiscussa, e anche per questo ha deciso di continuare a segnare, soprattutto fuori dal campo. Laddove il pallone per lei ora rappresenta il diritto di uguaglianza, la porta la meta da raggiugere e la libertà sociale la rete da gonfiare. Megan ha deciso di prenderci per mano e dribblare ogni ostilità, e buttare la palla nell’angolino più importante. Nella partita più difficile. Contro l’avversario più ostile: l’ignoranza.
Perché i gol e il calcio sono il modo migliore per continuare a tenere i riflettori accesi su qualcosa di decisamente più grande, qualcosa che riguarda tutti noi, gli esseri umani e le loro vite.“Dobbiamo considerare il tempo e gli spazi che abbiamo a disposizione” ha ribadito nella conferenza stampa post mondiale, “per portare questo sport in un posto migliore e magari il mondo in un posto migliore. Io non andrei, e non incoraggerei le mie compagne ad andare; significa offrire quegli spazi, ed essere cooptate da una amministrazione che non combatte per le stesse cose per cui combattiamo noi”.
La doppietta segnata contro la Francia e la sua esultanza atta a sottolineare il suo orgoglio nel gesto di protesta al mondiale, sottolineava ancor più il ruolo di leader di Rapinoe, e di una “nuova era” imminente alle porte.
E questo sarà un momento da ricordare: il primo passo verso un inclusione degna a livello sociale. Per lei, la lotta è una routine. Una responsabilità quotidiana, una risorsa, una strategia. Giorno dopo giorno, una battaglia per le sportive da portare avanti con le loro forze e la loro voglia di vivere, impregnando tutti quelli che stanno attorno.
In questo mondiale abbiamo conosciuto una ragazza che ha saputo costruire la luce durante ogni difficoltà, durante una tempesta discriminatoria che da troppo tempo attanaglia il mondo del calcio femminile americano e non solo.
Si è armata di coraggio, ha indossato l’armatura per lottare in campo e soprattutto fuori, accettando il fatto di essere parte attiva nella lotta contro le discriminazioni sessuali e sociali. Il suo volto mai domo ha rivelato che, nonostante le paure, l’incertezza e a volte la sofferenza, è pronta a continuare a spremere la vita prendendo per mano un’intera comunità.
Lei si è resa partecipe di quella schiera di nonne, madri, figlie, amiche, il cui scudo è la forza e l’armatura è l’atteggiamento. Coloro che hanno saputo svegliare le coscienze delle persone dal sonno di una ragione orma troppo retrograda.
Molti aspetti della vita, della personalità e persino del vocabolario della Megan adulta sembrano in effetti scolpiti dall’influenza di una corrente di pensiero autoritaria e dignitosa: la fissazione per il “rispetto” e per “l’umiltà”, l’orrore per la menzogna e la discriminazione che la porta a ripetere quasi in ogni intervista di essere una persona “vera” e “diretta”, la purezza nei confronti di se stessa, l’etica del sacrificio, l’amore per l’uguaglianza.
E forse la ricerca della coerenza in un mondo che sta diventando sempre più cupo, impaurito e spento nella possibilità di esprimere liberamente il proprio “io” è un lusso riservato a chi può misurarsi con un’immagine privata di se stesso, senza che la vita pubblica inghiotta e distorca la propria capacità di auto-rappresentazione.
Eppure capitan Rapinoe abbraccia le sue contraddizioni (individualismo e spirito di squadra, forza e malinconia) perché non ha scelto di essere qualcuno. Lei è qualcuno. Lei è semplicemente se stessa.
Perché è da quando è poco più che una bambina che tutto quello che fa e tutto quello che dice diventa il simbolo di qualcos’altro, in quel rapporto di simbiosi tra il pubblico e le persone incredibilmente famose, nutrendo entrambe le parti di speranza ma allo stesso tempo svuotandole nella loro incoerenza.
Perché lei, ora, in attesa di una società evoluta, può essere solo il capitano di una nazionale di calcio. Ma in realtà, sappiamo già che è una rivoluzionaria. E il suo esempio, dobbiamo traslarlo in Italia. E lasciamocelo dire, che il vero rivoluzionario è guidato e mosso solo da grandi sentimenti di amore, come Megan ha saputo spiegarci e trasmetterci perfettamente all’indomani della vittoria mondiale:
“Dobbiamo essere migliori.
Dobbiamo amare di più, odiare di meno.
Dobbiamo ascoltare di più e parlare di meno.
Dobbiamo sapere che questa è una responsabilità di tutti.
Di ogni singola persona che è qui, di ogni singola persona che non è qui, di ogni singola persona che non vuole essere qui.
Di ogni singola persona che è d’accordo e di chi non è d’accordo.
È nostra responsabilità rendere questo mondo un posto migliore”
La donna che ha vinto il pallone d’oro, il secondo della storia nel calcio femminile e che deciso di portarci a “casa”, fuori dal “sentiero”, per farci capre quanto fosse importante, bella e diversa la realtà rispetto a come ci viene “raccontata”.
Lei ci sta indicando quanto sia importante questo pallone d’oro , e che non può che corrispondere al talento, alla voce del coraggio, al potere dei sogni, alla dignità di ogni donna. Alla sua identità più autentica.
Lei ha già iniziato a raccontare la sua storia, la sua versione, la sua favola: una delle calciatrici più forti di sempre pronta a diventare icona attivista per i diritti delle donne e dell’uguaglianza sociale.
Lei, la neo pallone d’oro, ci ha fornito l’assist più importante di sempre per valorizzare definitivamente il movimento del calcio femminile.
Ora tocca a noi, in Italia. Tra la gente abbiamo già vinto. Da quando siamo atterrate in Francia. Quando una bambina risponde:”Bonansea, Gama, Giacinti, Rosucci, etc, alla domanda: “chi è il tuo idolo?” Siamo già nel futuro. Non si dimentica. Si inizia da qui. Abbiamo già vinto con loro. Ora dobbiamo guadagnarci quella con le istituzioni.
Ed è abbastanza assurdo che, come la storia insegna, ancora una volta la donna debba dimsotrare il doppio per ottenere un riconoscimento paritario.
Palla al centro.