Bagno di Romagna è un paesino sull’E45. Nella frazione di Acquapartita c’è la sede del ritiro estivo del Cesena, che si distingue per la presenza di un laghetto di pesca sportiva, un verde abbacinante e un casermone abbandonato su cui qualcuno ha scritto a caratteri ciclopici “Cesena”.

È la prima volta che la Nazionale Under 16 si riunisce qui (anche se da qualche tempo la Figc ha cominciato a mandarci in ritiro, col beneplacito della società cesenate, anche l’Under 20 maschile e l’Under 19 femminile). Ed è la prima volta che una donna prende parte agli allenamenti come membro dello staff tecnico federale.

Stiamo parlando di Patrizia Panico, nata a Roma l’8 febbraio 1975 che ha vinto quattordici volte il titolo di capocannoniere in Italia. È stata attaccante di Lazio, Torino, Modena, Milan, Bardolino e Agsm (Verona), Torres e Fiorentina, con un’esperienza anche agli Sky Blue negli Usa, segnando in carriera 664 reti, di cui 31 in 44 partite nelle competizioni Uefa. Sono invece 110 i gol collezionati con la Nazionale in 204 presenze, che la collocano al primo posto nella classifica delle marcatrici e in quella delle presenze in azzurro. Ha vinto dieci scudetti, cinque Coppe Italia e otto Supercoppe italiane. Nessuna come lei prima: i record della leggenda Carolina Morace, polverizzati anche quelli.

Intelligente e di carattere, con un accento romano divertito, Panico è un personaggio non banale in un mondo del calcio sempre ossessionato dalla conservazione delle apparenze. Ci siamo incontrati il 24 Agosto, seconda giornata del ritiro Under 16 abbiamo parlato della sua carriera sul campo (terminata agli inizi di agosto ) e di quella appena iniziata a bordo campo, di politica sportiva e di calcio femminile.



UNA CARRIERA LEGGENDARIA
E IL RICORDO DEGLI ULTIMI MONDIALI DISPUTATI IN ITALIA

Dopo un’estate tormentata, alla fine hai sciolto i tuoi dubbi e lasciato il calcio giocato. È stata una scelta sofferta?
Sinceramente no. Perché arrivata a una certa età sei meno tollerante, verso un allenatore che pensi approssimativo e inadeguato, verso scelte societarie che sanno di ridimensionamento. Sei meno tollerante rispetto al dilettantismo, dopo tanti sacrifici. Quindi no, non è stata sofferta, anzi.

E non ti manca il calcio giocato? Nemmeno ora che la stagione è ripartita?
Sinceramente non mi manca perché non mi sono divertita quest’anno. Perché come punto di riferimento ho questa stagione.

ulla tua pagina Facebook il 14 luglio hai scritto, riferendoti all’allenatore Sauro Fattori, «Lui è stato delegato di troppe cose se non di tutto». Cos’è che non funzionava? Scelte tattiche, la gestione? Te lo chiedo per cercare di sciogliere un nodo che ha animato molte discussioni tra chi segue il calcio femminile.
Ma figurati, lui è l’allenatore, io non contesto mai queste cose. Secondo me la cosa più bella è la trasparenza. E non c’è stata molta trasparenza.

A te nel progetto della Fiorentina Women’s sarebbe piaciuto avere un ruolo diverso?
A inizio anno c’era un progetto serio e continuativo. Da parte mia e di tantissime ragazze. E invece a fine anno sono state mandate via quelle che contestavano l’allenatore. Ma contestavano non a parole, fuori; contestavano andando da lui, chiedendo spiegazioni sul perché non si lavorava adeguatamente pur allenandosi tutti i giorni.

Fino a poco fa eri l’ultima calciatrice in attività ad aver preso parte ai Mondiali del 1999, l’ultima edizione a cui l’Italia abbia partecipato, e segnasti due reti, una con la Germania e una con il Messico.
Sì, poi con il Brasile, sempre nel girone, ma me l’hanno annullata per un fuorigioco della mia compagna. Si sono un po’ sbagliati lì, vabbè.

Mi racconti la rete annullata?
Praticamente perdevamo 1-0. Poi prendo il rigore contro il Brasile, sarebbe stato l’1-1. Sul dischetto va Carta, Antonella Carta, il capitano. Che penso non abbia mai sbagliato un rigore in tutta la sua carriera. Va sul dischetto, batte, prende la traversa in pieno. La palla torna indietro, la prima ad arrivarci è Rita Guarino. Di testa a porta vuota manda la palla alta. Il secondo tempo, sempre 1-0 per il Brasile. Arriva questo lancio lungo, eravamo io e Rita che giocavamo coppia d’attacco. Lei era più spostata avanti. Prendo questa palla, faccio gol (o forse addirittura di prima?, si chiede), faccio gol, esultiamo, non ci accorgiamo che l’arbitro aveva fischiato il fuorigioco. Nel mentre esultiamo queste prendono, ribattono: 2-0 per loro. Quindi peccato, perché anche lì eravamo riuscite a riprendere la partita, a far bene. Ma sul fuorigioco si sono sbagliati clamorosamente, noi l’abbiamo rivisto la sera. E mentre esultavamo hanno fatto ‘sto gol.

Che poi senza quel gol, e con il rigore…
Passavamo.

Le due reti valide, invece, te le ricordi?
La prima con la Germania di testa. Il gol dell’uno a zero, al 36’. Forse su cross di Carta, in tuffo. Fare gol di testa alle tedesche, io che so’ piccolina (ride). Ma vabbè ero giovane, proprio spensierata. Poi non ho mai sofferto proprio di nessun tipo di ansie, anche se contro il Brasile c’erano 60.000 spettatori. Non voglio dire la pressione, però l’atmosfera si sentiva. Ma io, sempre stata abbastanza menefreghista. Vedevo invece le mie compagne intimorite, l’abitudine di giocare davanti a 50.000 persone non ce l’aveva nessuna.

E invece con il Messico?
Forse ho fatto un sombrero dentro l’area di rigore. Sì, ho fatto un sombrero dentro l’area di rigore a una, poi di destro a incrociare.

In generale come la ricordi quella manifestazione?
Fantastica. Era la prima – la prima e ultima competizione Fifa per noi – ma avevo il termine di paragone con la Uefa. A livello di organizzazione gli Stati Uniti erano già molto avanti, anche se come arbitraggi credo che la Uefa sia meglio. Però ovviamente bello, contro il Brasile ripeto c’erano 60.000 spettatori, una catena di fotografi impressionante. Ce ne saranno stati 50.

E questo quindi ha influito sull’approccio…
Sì, secondo me sì. Perché io vedevo le mie compagne un po’ intimorite. Non tutte. Certo una come Antonella Carta che non ha mai sbagliato un calcio di rigore…

Invece gli Stati Uniti quel Mondiale lo vinsero.
Sì, con Brandi Chastain.

Fu il loro secondo Mondiale e da lì nacque il mito della generazione delle ’99ers. Voi non ci avete giocato contro in quell’occasione, ma le hai viste in campo. Cosa ricordi di loro?
Mi ricordo Mia Hamm. Noi ci avevamo già giocato, forse l’anno prima. Era una Nazionale inarrivabile, per noi poi. Le vedevi, avevano una velocità di circolazione palla superiore a tutti; la forza dei passaggi era tre volte la nostra. I nostri passaggi erano tutti intercettabili, sui loro non ci arrivavi mai. Cioè troppo più forti. Poi Mia Hamm era un mostro.

Più forti fisicamente, ma sul piano tattico invece?
Neanche me le ricordo tatticamente. Un conto è quando le vedi in televisione e hai una valutazione diversa. Ma dal vivo vedi solo che vanno al triplo di te.

Dovessi fare un paragone tra loro, generazione del ’99 vincitrice del Mondiale in casa, e quella del 2015, quale ti piace di più?
Forse quella del 2015 era più completa. Aveva meno individualità rispetto a quella del ’99 ma più strutturata da un punto di vista di caratteristiche delle giocatrici: la torre davanti con Abby Wambach, Alex Morgan velocissima, Rapinoe sull’esterno che ti salta l’uomo e ti crea superiorità numerica. E poi Hope Solo, altro che Briana Scurry.



LE POLITICHE DI PROMOZIONE NEL CALCIO ITALIANO

Quello che è cambiato da allora, sul piano della politica sportiva negli Stati Uniti, è il finanziamento pubblico sempre maggiore all’attività sportiva femminile. La generazione del ’99 fu la prima a raccogliere i frutti del famoso Title IX e oggi, per quanto sconfitte a Rio, la loro tradizione continua. E la realtà italiana?
In Italia, dagli anni Novanta a oggi, non credo ci siano sostanziali differenze. Però devi viaggiare su due canali diversi, club e Nazionali. Dal punto di vista delle Nazionali, c’è stata un’enorme crescita: adesso ne hai cinque, all’epoca ne avevi due, la maggiore e l’Under 19. Quindi da un punto di vista di investimenti l’Italia ha avuto un incremento assurdo. Per i club si è rimasti a com’era allora: con la passione di un presidente che fatica a reperire risorse economiche. E anche fisiche.

Dovendo individuare responsabilità: è più una questione di politiche generali del Governo, del Coni, della Federazione o della Lega?
Secondo me non possiamo prendere come modello il riferimento americano, perché già soltanto con i college nascerebbe viziato. Perché nelle università italiane, ma già nei licei, se fai sport sei penalizzato con le assenze. Secondo me il punto è che alle società, ai club femminili mancano dei prerequisiti. È lasciato tutto al dilettantismo. Invece ci deve essere una regolamentazione tale da responsabilizzare il club. È chiaro che più stringi le regole più determinati club non possono starci dentro. Ma se vogliamo professionalizzare i club femminili purtroppo si deve perdere anche qualcosa per strada. Per quello dico che la via più breve è affiliarsi ai club maschili già esistenti.

Che è poi la linea promossa dalla Federazione e seguita dalla Fiorentina
Esatto, perché sei incanalato in una struttura già professionale.

E l’investimento è sempre un privato che deve decidere di farlo…
Bisogna che ci siano degli incentivi. Tipo, se vuoi partecipare alle coppe europee devi avere anche il settore femminile. E secondo me in questo è la Uefa che deve spingere.


RIO 2016: L’ESPLOSIONE DELLA TATTICA

Che giudizio ti sei fatta del torneo di calcio femminile a Rio?
Intanto mi è piaciuto tantissimo il fatto che siano arrivate in finale due squadre inaspettate, soprattutto la Svezia. La Germania magari era abbastanza prevedibile che arrivasse, perché alla fine la Germania comunque arriva sempre. Pensavo potesse fare qualcosa in più il Brasile, soprattutto perché giocava in casa. Però a livello di organizzazione credo che la Germania sia ancora superiore a tutti. La delusione sono stati gli Stati Uniti che secondo me, per il bacino di praticanti che hanno, credo abbiano un po’ l’obbligo di arrivare sempre alle finali. Però la cosa che mi è piaciuta di più è stato il coinvolgimento del pubblico; mi sono sembrati sempre molto pieni gli stadi. A livello di qualità, però, non credo sia stata eccessivamente alta per un’Olimpiade. Credo che ci siano numerosissime squadre europee che potrebbero ben figurare. I posti per accedere sia alle Olimpiadi che ai Mondiali sono ancora troppo pochi.

Quindi secondo te ci sarebbe da allargare la base delle partecipanti?
Sì, se vuoi maggior spettacolo è chiaro che devi cercare di favorire l’inserimento di squadre più forti.

Per quanto riguarda invece il piano del gioco, come te, sono rimasto colpito dal risultato della Svezia. Ma era immaginabile considerando l’esperienza di Pia Sundhage. Mentre stupefacente il Canada, molto organizzato…
Sì, anche il loro allenatore, John Herdman, è molto in gamba. Però il Canada non mi ha stupito, perché è sempre stata una delle superpotenze, anche se ha sempre sbagliato nell’arrivare. Un po’ come la Francia, che ormai è una realtà, però stenta sempre a fare quel passettino in più. Comunque ho visto che dal punto di vista tecnico-organizzativo sono cresciute tutte le squadre.

Secondo te perché alla Francia manca questo passaggio finale, nonostante poi dal punto di vista tecnico-tattico sia forse la squadra con la maggiore tradizione?
La Francia non è disorganizzata, ma è molto forte quando ha il possesso della palla. Un po’ meno in fase di non possesso, quindi lì è una questione di organizzazione difensiva. Lascia molto più spazio all’individualità, alle giocate, piuttosto che preoccuparsi della fase difensiva.

Per quanto riguarda l’attacco, non manca qualcosa anche lì?
Manca il centravanti, così come manca alla Germania. Perché Alexandra Popp l’ho vista e non m’ha impressionato, non è ai livelli di Brigit Prinz. Mentre in Francia Le Sommer fa molto bene, però non è proprio una prima punta. Se ti manca un centravanti di peso, devi giocare in altri modi.

La Svezia, tatticamente, l’hai vista cresciuta?
La Svezia molto bene tatticamente. Però quello che mi è piaciuto tanto è stato lo spirito di sacrificio. Ho visto Lotta Schelin rincorrere fino alla bandierina del calcio d’angolo le avversarie. Se una giocatrice così importante si sacrifica per la squadra e il risultato, vuol dire che Pia Sundhage ha motivato tutte per un unico obiettivo.

E gli Stati Uniti? È stata ostinazione la loro a giocare nella maniera consueta, senza capire questa evoluzione tattica?
Sì, loro sono un po’ così. Se tu hai così tanta scelta per selezionare le giocatrici e non riesci ad arrivare in finale – non voglio dire a vincere perché poi la finale è una partita a sé – in fondo è un po’ un fallimento. E quando parlo di scelta non faccio il paragone con l’Italia, che siamo in 25.000, ma con la Germania. Ma secondo me quello che manca agli Stati Uniti è la storia calcistica, quindi anche allenatori bravi. Io mi ricordo quando sono stata a giocare negli Stati Uniti, nel 2010, negli Sky Blue gli statunitensi parlavano di calcio in modo sempre motivazionale. I lavori erano sempre improntati su quello, mai sulla tattica.

Quindi bisogna sperare che non si radichi la scuola europea negli Stati Uniti, altrimenti vinceranno sempre.
Esatto. Loro però li ricercano gli allenatori, sia nel maschile che nel femminile. Perché sono consapevoli che manca loro un po’ di storia.

Le squadre africane come le hai viste invece?
Come sempre: tanta volontà, tanta velocità, tanto atletismo. Però anche lì: ci sono invece tantissime nazionali europee che avrebbero ben figurato, tipo l’Olanda, l’Inghilterra, la Norvegia, la Danimarca, l’Italia stessa, la Spagna. Chiaramente le europee sono quelle più elevate. A loro bisognerebbe aprire.

E secondo te il numero ideale per il torneo di calcio femminile delle Olimpiadi quale sarebbe?
Eh, almeno un girone in più, quindi 16 squadre in totale.

Tornando al Canada e alla politica sportiva. Nel 2011, quando Carolina Morace allenava lì, lamentava l’impossibilità di lavorare con le giocatrici, l’assenza addirittura di un torneo per farle incontrare.
Beh anche lì c’era stata la polemica con la Fifa, dell’impossibilità di far partecipare una Nazionale se non aveva un campionato di Serie A. Però la Federazione canadese e la Federazione messicana hanno fatto un accordo con la Lega e la Federazione statunitense, quindi pagano affinché quelle nel giro della Nazionale possano tesserarle nel campionato americano. Quindi hanno trovato un escamotage per avere le giocatrici nazionali in un campionato di alto livello.

Noi che un campionato ce l’abbiamo, anche se dilettantistico per la legge, potremmo studiare accordi simili in Europa?
È chiaro che le straniere alzano il livello del campionato. Però il campionato allora dovrebbe essere competitivo, non sempre una lotta a due o a tre. E poi le devi pagare bene, cosa che non puoi fare. Per cui non ci sono i presupposti.

Quindi la strada secondo te è quella di: obblighi della Uefa alle società maschili per creare i settori femminili, finanziamenti e agevolazioni?
Sì, mettere paletti: le squadre europee devono avere il settore femminile. Oppure per quelle che retrocedono, hai un punto in più in classifica se hai tutto il settore femminile.

Sono maturi i tempi per una cosa simile?
Secondo me sì: adesso è il momento. Un conto se inizia la Fiorentina, un conto Milan, Juve, Inter. Perché le bambine ormai giocano tutte a calcio in Italia. Il problema è che giocano da piccole, poi smettono perché non ci sono squadre. Fino a tredici anni possono giocare con i maschi. Poi anche i genitori si rompono a portare la bimba a una squadra del paese. Un conto è portarla alla squadra del paese, un conto è all’Inter, al Milan, alla Juventus o alla Lazio.



CHAMPIONS LEAGUE: DESTINATE AI QUARTI


A proposito di Uefa, quest’anno l’Italia ha ospitato la finale di Champions League a Reggio Emilia. In occasione della presentazione della partita, tu sei stata nominata come testimonial dell’evento. Come hai vissuto questo riconoscimento?
La cosa che mi ha gratificato è stato vedere lo stadio così pieno. Perché ci davano tutti per spacciati, che in così poco tempo non avremmo fatto grandi cose. Invece in pochi mesi siamo riusciti a portare la coppa in giro per l’Italia, a promuoverla, a portarla per gli stadi in cui giocavano partite del maschile. È stata una gratificazione di tanti sacrifici di tutta una carriera.

La scelta su di te, sul piano personale?
Sono stata contenta perché comunque vuol dire che anche la Uefa ha riconoscenza per quello che ho fatto nel calcio. Una sorta di premio. Avranno detto: «Visto che non ha mai vinto un premio internazionale, facciamoje fa’ ‘sta cosa».

Protagonista della finale insieme al Lione, il Wolfsburg dopo Dieselgate rischia un ridimensionamento?
Io il Wolfsburg l’ho incontrato anche prima che avesse tutti quei soldi e, sinceramente, in Germania anche se hai pochi soldi investi sui giovani e fai la squadra ad alti livelli ugualmente.

Invece il torneo del Brescia, eliminato proprio dal Wolfsburg ai quarti?
Adesso come adesso tra una squadra di club nostra e le tedesche o le francesi di livello top, non c’è proprio partita. Però secondo me quello che dovevano fare l’hanno fatto.

Quindi in Champions quello che ci possiamo aspettare dalle nostre è questo, al massimo i quarti?
Per ora sì. Bene che vada, i quarti. Sempre se non hai grandissimi club già al primo turno.

Anche per questa edizione? Con Brescia e Verona di nuovo teste di serie che partono dai sedicesimi?
Sì, già che parti testa di serie hai possibilità di arrivare ai quarti.



IN NAZIONALE, UN’ESPERIENZA DI CALCIO GLOBALE

Passando dalle questioni di club all’azzurro, qual è il tuo giudizio sulla Nazionale femminile in questo momento?
La Nazionale sta facendo quello che deve fare. Con la Svizzera, che per noi è un metro di paragone, in passato non abbiamo mai perso. La Svizzera sta crescendo e noi forse stiamo tornando un po’ indietro.

Beh, il 25 ottobre scorso con la Svizzera ne abbiamo presi tre in casa.
Sono tanti, noi di solito gliene facevamo tre a loro. Però non so, secondo me le giocatrici forti italiane ci sono. Rispetto alla Svizzera noi siamo più forti.

Cos’è che manca allora? Perché a livello internazionale siamo di fatto fuori dal 1999 dai Mondiali, fuori dal 2008 dall’Algarve Cup, fuori dagli Europei dal 2013 e le Olimpiadi non le abbiamo mai fatte. Certo partecipiamo alla Cyprus Cup…
Per carità, la Cyprus non ne vale davvero la pena.

E allora cosa manca?
Non lo so. È chiaro che le altre nazionali cambiano ma hanno sempre giocatrici pronte. Da noi sembra sempre che dobbiamo lavorare tre o quattro anni per raggiungere un certo livello, poi dopo i quattro anni si azzera tutto. Credo manchi un po’ di continuità di crescita, non di risultati.

Rischiamo di rimanere fermi in un circolo vizioso? Non fai esperienza internazionale, quindi non cresci come mentalità ed esperienza; non cresci, quindi non entri nelle competizioni internazionali.
Beh, ma le esperienze internazionali comunque si fanno, tra qualificazioni europee, qualificazioni Mondiali, tornei internazionali e amichevoli. È che mi sembra proprio che siamo arrivate al punto più alto agli Europei 2013 e poi siamo tornate indietro. Questo accade quando c’è un cambio generazionale oppure un cambio dell’allenatore.

Ci sono anche ragioni tecniche?
Nel merito non voglio entrare. È chiaro che quando non hai i risultati ci sono tantissime cause. Ma non siamo inferiori a Svizzera, Spagna e Olanda.

Però continua l’assenza dai tornei. E in giro si sentono molte critiche sull’impostazione che Cabrini ha dato a questa squadra, con la difesa a tre.
Anche lì non c’è stata molta continuità, perché una volta era a quattro, poi si è ritornati a tre. La crescita deve essere costante. Però le critiche agli allenatori delle Nazionali ci sono sempre state. Secondo me noi abbiamo la possibilità di giocare con entrambe le linee.

Anche sul piano atletico?
Forse sì, dipende da che squadre incontri. Perché è chiaro che se incontri la Spagna io a tre non ci giocherei mai, perché hanno tre attaccanti sugli esterni molto forti, anche in mezzo molto toste e rapide. Anche con l’Olanda non giocherei mai a tre, perché hanno tre attaccanti, una altissima di testa che nel duello uno contro due vince sempre e sugli esterni hanno Melis che ti salta l’avversario in avanti e indietro. Con la Svizzera a tre ci posso giocare se metto Alias Guagni da una parte.

Quindi siamo ancora in una fase in cui non abbiamo una nostra identità di gioco e dobbiamo adattarci al gioco e alle caratteristiche delle avversarie?
Io sono dell’idea che un allenatore deve vedere le qualità delle proprie giocatrici e poi vedere anche come stanno. Dipende dal momento, poi la Nazionale non è un club. Le vedi poco quindi hai anche meno possibilità di lavorare. Quindi in base a come stanno fisicamente e alle qualità adatti il modulo. Poi è chiaro, degli accorgimenti rispetto agli avversari che incontri li devi avere. Vai avanti sulla tua strada solo se sei la Germania. Neanche gli Stati Uniti.

In quel 25 ottobre 2015, quando abbiamo rischiato di compromettere la qualificazione agli Europei, qual è stata la cosa che proprio ci è mancata?
Io ho sempre visto una squadra molto lunga. Un po’ il reparto in avanti è mancato. Come un po’ il gioco di squadra. Perché con una squadra così lunga le ripartenze della Bachmann (Ramona) facevano male; perché nell’uno contro uno non si riusciva a raddoppiare il centrocampista. Il nostro gioco è stato esclusivamente di rimessa, ma con un reparto offensivo che secondo me non era in grado di giocare di rimessa. E poi abbiamo lasciato troppo la palla alle avversarie, e quando non riesci a prenderla fai fatica.

Lo sciopero minacciato nella settimana precedente ha influito in qualche modo?
Secondo me no perché poi alla fine è rientrato tutto. Quello che manca adesso alla Nazionale è la personalità. La Nazionale del ’99 aveva grossa personalità.

Sei la prima donna in uno staff federale della Nazionale maschile in Italia. Non ti sarebbe piaciuto però provare a dare un contributo alla femminile, aggregata a quello staff tecnico?
Secondo me qui ci sono metodologie e sistemi diversi. Tutti gli allenatori delle giovanili si confrontano con gli altri e hai la possibilità di conoscere il calcio in maniera più immediata. Poi non so se potrà servirmi un giorno per la Nazionale femminile. Ma oggi, andare in Nazionale ad allenare quando fino a ieri ero una giocatrice, secondo me sarebbe controproducente.

Ma in futuro, ti ci vedi?
Non lo so, io ora sono contenta di stare con i ragazzi. Perché secondo me è molto bello vedere generazioni diverse al maschile. È una categoria che non conosco e mi piace avere una conoscenza del calcio a livello globale, non soltanto femminile. Sto bene con loro.

I ragazzi li hai conosciuti ieri (il 23 agosto) per la prima volta. Loro che reazione hanno avuto a vedersi tra gli allenatori una donna?
Non lo so. Sicuramente sono rimasti un po’ scioccati. Però poi sono talmente gentili, carini.

Come ti sembrano?
Vengono tutti da club importanti. Sono quindi già abituati a lavorare. In più provengono in tanti dall’Under 15, la maglia azzurra già la conoscono. E poi hanno la fortuna di lavorare con mister Zoratto che è davvero molto bravo.

Com’è questa squadra?
Secondo me molto buona. Poi nel complesso non conosco molto bene la categoria. Dovrò andare a vedere in giro, a conoscerli durante il campionato. Però anche dalle parole che dice il mister mi sembra un bel gruppo.

In futuro ti piacerebbe lavorare con la Nazionale femminile?
Non saprei. È chiaro che adesso il calcio femminile è quello che conosco meglio. Però il calcio – a parte che è uno solo – si basa su conoscenze. Conosco meglio quello, adesso voglio approfondire questo.

Non mi dire che non ci hai neanche lontanamente pensato?
Mah, adesso non ci penso. Secondo me il sogno di indossare questa maglia come allenatore è già realizzato. Poi se sei con i grandi, i piccoli, i medi, le donne o le bambine, fa poca differenza.