“Ho cominciato che avevo fatto praticamente i primi passi, quel che ricordo è infatti, lì in giardino, un pallone quasi più grande di me e subito a corrergli dietro. Giocavo con i miei amici ma dai 6 agli 8 anni ho fatto pallavolo, l’avevo anche scelta io ma il secondo anno era più le volte che la colpivo con i piedi la palla che con le mani: allora era meglio cambiare. Mia madre non era d’accordo, diceva che era uno sport per maschi; mio padre invece entusiasta, anche lui aveva giocato, poi s’era rotto da giovane la tibia e stop. Così alla Reanese, 10’ minuti da casa, mio padre a portarmi; ce n’era un’altra di ragazza e questo mi ha aiutato. Lei però non era tanto brava, così non l’aiutavano molto e ha lasciato. Io invece me la cavavo, sino ai 13 anni sempre bene integrata nel gruppo, stavo bene con i maschi. Sono stati anni belli in cui mi sono formata anche il carattere, l’ho imparato da loro il non mollare, con allenatori che non ti risparmiavano: pedalare e zitti”.
Così si e ci raccontava un bel po’ di anni fa, lei, Ilaria Mauro. Quel bel po’ di anni fa risale al libro edito dall’AIC alla vigilia dell’Europeo 2013 (titolo: Il calcio è donna).
Ilaria, giusto un paio di mesi fa, ha deciso infine di appendere gli scarpini al famoso chiodo. Lei dice, riguardando un po’ il suo percorso, che magari le poteva pure andarle ancora meglio, di mezzo infatti non pochi infortuni che non le hanno dato spesso la possibilità di esprimersi ancor di più (basta intendersi: stiamo parlando di una ragazza/donna che tra le altre cose ne ha messo assieme ben 49 di presenze in Nazionale…).
“L’ultimo anno con la Fiorentina era stato un po’ complicato e faticoso, cercavo comunque una nuova esperienza, nuovi stimoli. È arrivata l’Inter, benissimo, ma appena finito il ritiro m’è arrivato lo ‘scontro’ con l’operazione, via la tiroide. M’è cascato il mondo addosso, devo allenarmi io, altro che operazione. Professionisti capaci attorno a me, che si sono proprio presi cura della sottoscritta e devo aggiungere che l’operazione è arrivata comunque dopo un anno per me impegnativo, intendo dal punto di vista fisico: tra caviglie, ginocchio e schiena ero più in panca che in campo”.
Dovevo gestirmi
“Abituata come sono sempre stata ad allenarmi duramente, al 100%, negli ultimi due anni dovevo concentrarmi più sulla prevenzione, vediamo come va sta settimana, quanto mi reggo in piedi. Mi sono insomma resa ancor più conto che non potevo più essere al 100%, per questo ho deciso di dire stop”.
Post
Hai avuto modo di ringraziare il calcio con questo post: “Ringrazio il calcio per avermi dato la possibilità di crescere. Mi ha insegnato cos’è il sacrificio, la perseveranza e la pazienza. Mi hai insegnato che cadi sette volte e ti rialzi otto. Ti porterò sempre con me, nel taschino in alto a sinistra, dove vanno tutte le cose belle della vita”.
Perché proprio lì, Ilaria?
“Lì c’è il cuore… 27 anni di calcio, dove potevo metterlo altrimenti? Cadi e ti rialzi, sempre così sono stati i miei anni”.
Io e lo spogliatoio
“Ce ne sono state due di Ilaria, una prima dei 25 anni, l’altra dopo. La prima Ilaria è quella di Tavagnacco, timida, pensavo a far bene il mio e stop. Aneddoto: partita di Champions contro il Malmö, ehi, la Champions. Lì mi dicono di prendere la fascia, tanti anni lì con loro, dal vivaio, dai. Dopo la partita ci ho pensato su qualche giorno, poi quella fascia l’ho restituita, no grazie, deve saper risolvere i problemi il capitano, disponibile con tutti: non sono pronta, non sono ancora così matura”.
E dopo i 25 anni?
“L’esperienza in Germania, persone nuove, io più grande. Ecco così che dopo i 25-26 mi sono sentita sì in grado di aiutare lo spogliatoio, comunque una leader, mica c’è bisogno della fascia per esserlo”.
Sotto allora con un po’ di amarcord: la partita che non dimentichi?
“Contro l’Australia, al Mondiale di Francia. Ripeto, un MON-DI-A-LE, dopo 20 anni. L’atmosfera che c’era, un sogno, io lì che faccio un rewind e mi vedo piccolina, la prima volta che mi metto gli scarpini e quella “diapositiva” dello stadio tutto pieno, come non sentirsi per davvero una calciatrice vera?”
Quella che vorresti rigiocare?
“Fiorentina-Tavagnacco, lì al Franchi, a vincere il mio primo scudetto. Erano in diecimila, la Maratona piena, idem la tribuna, non me l’aspettavo e non ce l’aspettavamo. 2 a 0 per noi e scudetto”.
Un gol… pazzesco?
“In un torneo in Brasile, a Manaus, contro di loro. Lì che parto in progressione, 40-50 metri e poi da fuori area una mina sotto l’incrocio. Vedendo il video a dirmi se ero proprio io quella”.
Un… pazzesco gol sbagliato?
“Ne ho sbagliati certo tanti, ma uno me lo ricordo proprio, col Tavagnacco: palla rasoterra, bastava giusto appoggiarla, non so come sono riuscita a mandarla fuori”.
Qualche cartellino rosso?
“Giusto uno, uno solo. In Coppa Italia, ancora col Tavagnacco, contro l’Acf Firenze, era ancora quella la squadra. Difesa dura e fisica la loro, aggressiva non solo col fisico ma pure verbalmente. Poi quei piccoli calcetti, lì che ti pestano un piede, palla lontana e via a chiedere scusa, per poi rifarlo. C’è dunque un lancio, io che parto guardando la palla: mi ritrovo per terra, lì a vedere davvero le stelline e questa mi chiede scusa per la gomitata. L’arbitro non aveva visto, però mi ha visto poi che la prendevo per il collo… ero giovane. Rosso.
L’avversaria più tosta?
“Cecilia, Cecilia Salvai. Per me lei è uno dei centrali più completi, non a caso gioca con la Juve e la Nazionale. Forte psicologicamente e fisicamente, aggressiva e intelligente, proprio brava ad anticipare”.
La più forte che hai incrociato?
“Quand’ero in Germania, col Sand, contro il Frankfurt: la Marozsan, dal Lione ora è andata negli Stati Uniti. Una forza pazzesca, di grande intelligenza tattica e come viaggiava la palla quando calciava”.
Un’atmosfera particolare?
“L’Allianz Arena, quella partita contro la Juve, pareva un film, in 40.000 e c’era un clima di festa ma pure di armonia. Nel riscaldamento non era ancora pieno ma quando siamo uscite, che emozione, magari potessi tornare indietro e rigiocarla”.
(Inevitabile) E adesso?
“Non so ancora, non so, devo capire bene che strada prendere. Quel che so è che vorrei continuare ad aiutare il movimento, è un mondo che sta crescendo il nostro e le stesse ragazze devono capire come e quanto cambierà, come starci. Noi che siamo partite che ci allenavamo tre sere a settimana, non c’erano medici, fisioterapisti, nutrizionisti eccetera, con trasferte di ore e ore fatte in giornata. Un mondo in evoluzione, bisogna essere preparate”.
Come finiamo?
“Nessun nome ma un ringraziamento generale per tutti quelli che mi hanno dato una mano, non ce la si fa da sole. A chi mi ha aiutato e a chi mi è stato vicino. E un grazie al calcio, naturalmente”.
Già, dal taschino. In bocca al lupo e buon cammino, centravanti.
di Pino Lazzaro
Credit Photo: AIC – Associazione Italiana Calciatori