«Tornare in campo. Tutti non vediamo l’ora di giocare, ovvio nel rispetto delle regole di sicurezza. Il momento è difficile, però c’è bisogno anche di riprendere a emozionarsi. Certo la salute è la priorità, convivere con il virus sarà complicato, ma così come si va a fare la spesa si deve fare anche altro. Dopo due mesi io il rischio me lo prendo. Non ci si può fermare davanti alle paure».
Di calcio femminile non si parla…
«Ora conta la ripresa della serie A maschile, giustamente, sono loro che portano i soldi allo Stato, e tanti… Noi però siamo pronte, appena ci dicono partite, partiamo».
Il Milan paga i contributi, Gazidis vi manda messaggi per mostrarvi che la società è vicina, un’isola felice in un momento così.
«Dal punto di vista economico siamo state fortunate, la società non ha toccato i nostri stipendi. Maldini, Gazidis sono sempre disponibili, tengono a noi come a tutte le categorie dei maschi. Spero di restare al Milan a lungo. Non amo cambiare perché la squadra per me diventa una seconda casa».
Lei, il virus e la quarantena.
«All’inizio capivo che era grave ma non che fosse così di massa. C’era il timore di contagiare ed essere contagiati. Mi lavavo mille volte le mani. Sono rimasta a Milano con sette compagne italiane e le straniere. Ci è andata bene, abbiamo un giardino dove correre e fare esercizi. A un chilometro vive mio fratello, ma non l’ho mai incontrato in questi mesi».
Cosa le manca di più?
«Le partite, che sono il momento di puro divertimento. E poi il ritiro pregara con la squadra».
La sua storia calcistica comincia banalmente dal fratello maggiore?
«No, Davide non poteva giocare da piccolo per via di un intervento a un piede. La “colpa” semmai è di mio padre, Patrizio, era un calciatore dilettante e la domenica andavo a vederlo giocare. Mentre faceva la doccia lo aspettavo in campo col pallone, e qualche suo compagno giocava con me. Così è iniziato».
Sua madre Gianpiera contenta?
«Non si è mai opposta. Era solo avvilita per tutte le lavatrici che doveva fare e per i calzettoni bucati da cucire. Certo avrebbe preferito che facessi pallavolo come lei».
E’ partita dall’oratorio, dai campi di terra e coi maschi, ha fatto la differenza nella sua crescita?
«Ho chiesto una squadra e c’era solo l’oratorio vicino a casa. Ora è più facile per una bambina fare questo sport, ci sono le scuole calcio e i genitori hanno la mente più aperta, sono stati abbattuti tanti tabù. Aver giocato coi maschi credo che abbia formato i piccoli pezzi del mio carattere: dovevo far capire che non mi potevano prendere in giro e soprattutto che avevano bisogno anche di me. Insomma, ti fai le ossa».
La sua famiglia la segue?
«Sempre. Papà è il mio primo tifoso. Da piccola sai le sgridate dopo le partite! E’ felice per me perché sono riuscita a fare del calcio un lavoro. Con Davide siamo molto legati, ha tre anni di più e stravede per me anche se non lo dice. Se ho bisogno c’è. E’ protettivo a volte anche troppo».
Il suo tempo libero nella normalità e nella clausura com’è?
«Di tempo libero ora ne ho troppo sinceramente e quindi, oltre alla lettura e in mancanza degli amici, mi sono messa in cucina. Le serie tv le ho finite tutte, ma ho rivisto Harry Potter e amo qualsiasi cosa della Disney. Le letture preferite sono di fantascienza, mi liberano dai pensieri. “I pilastri della terra” è il mio libro favorito. Potenzialmente sono una pantafolaia. Non sono da discoteca, ma da uscite tranquille, amo chiacchierare con gli amici e le passeggiate in montagna».
Nata centrocampista, finita difensore, quando ha capito che il calcio poteva essere un lavoro?
«In difesa, come mio padre, ci sono finita da qualche anno, anche per l’avanzare dell’età, sono vecchia! Il centrale è uno che deve farsi rispettare. Cattiva io? No, direi grintosa, determinata. Che i difensori menino è una favola, gli attaccanti sono peggio. Quando da Como sono passata al Brescia ho dovuto scegliere se fare calcio o lavorare. Mi ero laureata in Scienza e tecnologia della ristorazione e avevo già lavorato nel campo. Giocare nel Brescia però non era compatibile con una occupazione, ma era anche la mia occasione, quindi ho detto “provo”. I miei genitori mi hanno supportato in questa scelta. Il calcio è vita per una donna, non certo soldi».
Per quale squadra tifa?
«Da piccola per la Juve, nonostante mio padre sia interista. Ma ne ho fin sopra i capelli, vedo tutte le partite, per prendere spunto dagli uomini, gioco, di tifare non ho voglia. E’ chiaro che simpatizzo per il Milan. Il mio idolo è Puyol, uno che non mollava un colpo, ma tranquillo e diplomatico, il prototipo del difensore ideale. Tra le donne invece quando ero piccola mi impressionava D’Adda (difensore dell’Inter, Roberta, 38 anni, 4 tricolori, diversi titoli e 90 presenze in Nazionale, ndr). Ecco, se avessi dovuto scegliere chi voler essere avrei detto D’Adda».
Cosa è cambiato per voi calciatrici dopo i Mondiali dell’anno scorso?
«Tante persone si sono avvicinate al calcio femminile. Ci scrivono, ci fermano e chiedono autografi. Prima si giocava davanti ai genitori, ora abbiamo gli spalti pieni e i tifosi che alla fine della partita vogliono salutarti. Tutto questo però va coltivato, ci vuole tempo perché si radichi. Piano piano cerchiamo di fare innamorare sempre più gente».
In due stagioni di Milan dalla Morace a Ganz, meglio un uomo o una donna?
«Per me è indifferente: se uno è bravo e determinato insegna allo stesso modo, ogni tecnico dà qualcosa di sé. Ci ha dato tanto la Morace; e ci sta dando tanto Ganz a livello emotivo, è coinvolgente, si vede che gli piace allenarci. In questo periodo ci scrive, ci videochiama, ci manda sfide di palleggi. Una volta a settimana facciamo un meeting tutti assieme».
Ha compagne preferite?
«Vado d’accordo con tutte. Ma sono molto legata a Francesca Vitale, anche perché condividiamo la stanza in ritiro. In Nazionale stimo molto Valentina Cernoia, per me è un esempio da seguire. Mi manca Camelia Ceasar, abbiamo vissuto assieme a Brescia e a Milano, ora gioca nella Roma. Il calcio ti dà amicizie e rapporti che non finiscono: giocare contro le amiche è ancora più bello».
Ha un sogno piccolo? Uno che si può realizzare subito?
«Giocare in Champions: ci sono arrivata col Brescia e voglio tornarci col Milan».
A trent’anni si fa i conti col desiderio di famiglia?
«Con la vita che facciamo è difficile costruire legami duraturi. Ora sono single. Però alla famiglia penso. Mi piacerebbe dare quello che ho ricevuto come figlia dai miei genitori. La famiglia è condivisione».
Niente tatuaggi e niente tacchi?
«Ai tatuaggi sto resistendo. Uno però mi piacerebbe farlo, ma visto che è per sempre ci devo riflettere molto, deve essere una cosa importante. In gonna e tacchi solo nelle grandi occasioni, altrimenti pantaloni e scarpe da ginnastica. Da piccola i tacchi li provavo davanti allo specchio».
Certo non esiste “l’Ufficio numeri” al Milan, abbiamo un po’ romanzato, però non è andata molto diversamente, vero?
«Ho sempre avuto il numero 6. Ci tenevo a mantenerlo. Due anni fa quando sono arrivata al Milan l’ho chiesto. Ma il sei era stato ritirato con il ritiro di Franco Baresi. Erano perplessi, ma invece di un no definitivo, hanno pensato di domandare il permesso direttamente al capitano. Permesso accordato e un onore per me, difensore come lui con la sua maglia. Una volta è venuto a vedere una partita, gli ho potuto dire “grazie”, solo questo, incapace di pronunciare altro per quanto sono timida e parlo poco. Lui pure, peggio di me… figuratevi il silenzio». Grazie, prego, fine.