Senza alcun dubbio, Stefania Tarenzi è una delle colonne portanti della Sampdoria Women, e non solo. Capitano carismatico, coraggioso e contraddistinto da una grande umiltà, ha sempre preferito dare risposte sul campo piuttosto che dare adito a gossip e chiacchiericci che nulla hanno a che fare con questo sport meraviglioso. La sua abnegazione e l’immenso amore per il calcio le hanno permesso di arrivare fino in Serie A e in Nazionale, superando tutti gli ostacoli di una vita che ha sempre affrontato a muso duro.
Punto di riferimento per le compagne, specialmente per le più giovani, ed esempio per le nuove leve, la leonessa blucerchiata ha recentemente scritto una toccante lettera d’amore al calcio femminile pubblicata dal sito cronachedispogliatoio.it. Provare a raccontarla rischierebbe di sminuirne bellezza ed unicità, motivo per cui la nostra redazione ha pensato di proporvela integralmente, senza perdere nemmeno un briciolo di tutta la sua meraviglia. Dunque, buona lettura!
Pane e pallone. La mia vita è sempre stata così. A scuola: calcio. All’oratorio: calcio. E quando il Sole iniziava a calare, uscivamo dall’oratorio e andavamo a giocare ai giardini. Per me questo sport è sempre andato oltre ogni retorica. Io, quando ho un pallone tra i piedi, sono la massima espressione della felicità. Giocavo con i maschi e non mi ero mai posta il problema.
Fino a un giorno che ricordo ancora oggi. Erano quei minuti in cui dall’oratorio ci stavamo spostando al parco, insieme ai miei amici, e una volta arrivati un bambino mi guardò e disse agli altri: «Ma come? Ancora lei? Questa è una femmina, che viene a fare?». Mi sentii morire dentro. Quella sensazione di vuoto, di bruciore allo stomaco. Io non mi ero mai posta davanti al fatto di essere una femmina in una squadra di maschi. Neanche ci pensavo.
Mi fece aprire gli occhi, comprendendo che esistevano gli stereotipi. Ero ingenua, possiamo dire così. Era la prima volta che qualcuno me lo faceva notare. Da quel momento sono stata più forte di queste situazioni: scesi in campo e vincemmo. Ero forte, e i maschi si incazzavano perché non riuscivano a prendermi. Sono stata fortunata, poche volte mi sono trovata davanti a un muro simile. I miei amici l’hanno sempre presa con normalità. Io ero una di loro.
Il viaggio verso il calcio femminile di oggi, per me, è iniziato in quel tragitto tra l’oratorio e il parco. Sono nata nella generazione degli allenamenti sulla terra, al gelo, senza aiuti né strutture. Senza considerazione. C’eravamo noi e l’arte di arrangiarsi. Ho vissuto il prima e il dopo, lo spartiacque italiano: oggi stiamo per diventare professioniste, e vivere da protagonista questa mutazione dopo oltre vent’anni di sofferenze vale ancora di più.
Le giovani che si avvicinano al pallone trovano un Paese che sta rompendo le distanze con quelli più evoluti. Quando ho iniziato io, non esistevano supporti e per tutti eri “il maschiaccio che gioca a calcio”. Per fortuna, io ho sempre pensato a sentirmi libera. Essere serena, andare d’accordo con tutti. Ho cercato di far percepire la mia presenza come la normalità. E anche quando mi dicevano «Sai, sei più brava dei ragazzi», cercavo di non ascoltarli. A me interessava il gruppo.
Ho maturato la passione per il mio sport preferito grazie ai video del Bardolino Verona. C’erano alcuni estratti su YouTube e ricordo quel preciso istante in cui, davanti allo schermo, ho pensato che sarebbe stato bello diventare come loro. Cavolo, giocavano nel campionato ufficiale, quello di Serie A! Io ero una bambina e volevo fare quello. Un solo obiettivo. Il percorso era segnato. E non avevo idoli, il mio idolo era il calcio. Una sola priorità.
Innegabile: è stata una lotta. Ora le giovani hanno 3 fisioterapisti, ogni giorno, a loro disposizione. Si allenano al mattino in strutture adeguate, talvolta all’avanguardia. Io mi allenavo la sera, sulla terra e al gelo, dopo che tutti avevano finito di lavorare. Avevamo un solo massaggiatore, una volta a settimana. Non c’erano scuole calcio. Eravamo noi, senza palestra o altri sussidi, e senza una preparazione fisica di base. Oggi le bambine fanno determinati allenamenti, incentrati su una formazione completa.
Partire da piccole con questo diktat fa la differenza. Non perdi anni: se inizi come noi intorno ai 18, hai perso oltre 10 anni di allenamenti e preparazione. Se invece, come altre ragazze, inizi a 14 anni proprio a giocare a calcio, allora hai perso i 10 anni precedenti che valgono doppio. Stanno nascendo in Italia diverse strumentazioni per pareggiare il gap. Si sta aprendo questo mondo, specialmente dopo il Mondiale del 2019 c’è stato un boom di iscrizioni.
Oggi, fare palestra per noi fa la differenza. Ti alleni la mattina e il pomeriggio migliori il fisico. Solo così cresce il livello. All’estero, questo accade da due decenni. Per questo quando qualche stagione fa affrontavamo Lione, Wolfsburg o squadre simili, prendevamo 8 o 9 gol. Loro facevano sedute doppie, noi al gelo. Per questo andavano al triplo di noi. Ad esempio, la Sampdoria quest’anno è partita con il proprio percorso nel calcio femminile. Ha fatto un miracolo, costruendo la squadra in poco tempo: ci sono tanti talenti che vogliono imparare e crescere.
Voglio aiutarle, alcune di loro studiano e devono far combaciare tutto. Dopo il Mondiale, la gente ci fermava: «Sapete, io non seguo il calcio, ma mi sono appassionato grazie a voi, grazie al calcio femminile». Hanno visto in noi una forte passione. Solo quella, e basta. Senza interessi intorno. Abbiamo trasmesso ciò che provavamo, e siamo state capite. Le ragazze di oggi, che si approcciano al nostro mondo, devono sapere di avere tante possibilità.
Per loro possono aprirsi innumerevoli strade. Hanno davanti un futuro che può essere bellissimo, con tanta gente e tante persone che lavorano per noi. Prima il concetto era: faccio tutto durante la giornata e poi tiro due calci al pallone. Oggi no, sono affiancate nel modo giusto. Quando mi allenavo al freddo, senza strutture… mi chiedevo perché non avessi scelto di giocare a pallavolo o a dama! Ma lo pensavo solo per 5 minuti, una volta arrivata al campo mi passava tutto.
E giocavo nel Brescia, che era una big. Per farvi capire il livello in cui siamo cresciute noi calciatrici del presente, una volta con il Brescia andammo in trasferta a Bari partendo la sera prima della partita, in treno, arrivando in Puglia alle 7 di mattina e aspettando in giro per la città fino alle 14.30 per andare all’impianto. Eravamo stanche morte e pareggiammo. Pensate cosa potesse accadere in club più piccoli. Si creava un forte senso di rivalsa verso l’esterno, un’atmosfera che ci faceva sentire unite e ancora più forti.
Gli stereotipi ci sono ancora, ma sono consapevole che la nostra storia è questa. Se fin da piccole, le donne fanno un determinato percorso, anche grazie all’educazione fisica nelle scuole, cresci con un’altra mentalità. Le femmine che giocano a calcio non devono essere più «i maschiacci», ma la normalità. Io ho avuto dei genitori che mi hanno appoggiato, e loro stessi mi hanno iscritto a scuola calcio nel mio paesino. Ancora li ringrazio.
Abbiamo bisogno che qualcuno dall’alto investa in modo concreto. All’estero, durante il campionato, gli stadi sono pieni. E questo porta guadagno. Deve crearsi un business, è difficile perché questo non accade dall’oggi al domani, ma solo così faremo ulteriori step. Le straniere che oggi arrivano in Serie A portano qualcosa di diverso, soprattutto nell’attitudine. Dobbiamo imparare e prendere il meglio. Tempo fa, quando giocavamo partite internazionali, eravamo sconfitte in partenza. Ora non è più così.
Durante il Mondiale abbiamo vissuto in una bolla. Non ci credevamo. Venivamo tutti dagli stessi sacrifici. Abbiamo chiuso gli occhi e la soddisfazione era immensa. Tanta roba. Finalmente è arrivata la nostra ora!