L’8 marzo, Festa della Donna e in Italia è tutto un tripudio di mimose e servizi giornalistici dedicati al “gentil sesso”. Una giornata per lavarsi la coscienza, rispetto agli altri 364 giorni all’anno nei quali delle donne, soprattutto nel calcio, non parla nessuno. Allora abbiamo deciso di interpellare una che ha fatto la storia di questo sport, sia come giocatrice che come tecnico ed è stata costretta a emigrare all’estero per vedere riconosciuti i propri sforzi. Parliamo di Carolina Morace, 52 anni, simbolo del football in rosa di casa nostra e sempre in prima linea per i diritti delle donne.
L’ex attaccante della Nazionale, con la quale ha segnato 105 reti complessive in 153 presenze, da poco è stata nominata Responsabile delle selezioni femminili di Trinidad e Tobago, isola del Centroamerica che conta 1,5 milioni di abitanti. Si occupa sia della Nazionale maggiore che di quelle giovanili, ovvero l’Under 17 e l’Under 20.
Cioè, tanto per intenderci: una che ha vinto 12 scudetti nell’arco di 14 anni (dal 1984 al 1998) con le maglie di Trani, Lazio, Reggiana, Milan, Torres, Agliana, Verona e Modena, tutti conclusi con il titolo di capocannoniere della Serie A e vanta nel palmares il riconoscimento di Uefa Golden Player dell’Europeo femminile di Norvegia-Svezia 1997, prima donna ad allenare una squadra maschile (la Viterbese) e poi a diventare ct della Nazionale italiana femminile dal 2000 al 2005 e di quella canadese dal 2009 al 2011 con la quale ha vinto la Women’s Gold Cup nel 2010, si è dovuta rifugiare nei Caraibi a 4 ore di fuso orario. Un «buen retiro», dal quale non smette di osservare i problemi che non vanno nel nostro paese ma dove è stata accolta “come se fosse arrivato Mourinho”.
Carolina, la Festa della Donna ha ancora un significato per te?
“Vivendo all’estero, in paesi come Canada e Australia è una ricorrenza che non ha senso di essere celebrata. In Italia invece sì. E’ vero che siamo in tutti i settori della società, ma non nei consigli di amministrazione, veniamo sottopagate, anch’io come avvocato circa il 20-25% in meno, insomma non c’è lo stesso trattamento. Poi per una ex calciatrice, che vede il panorama internazionale, certo che c’è da festeggiare”.
In Italia i due problemi principali sono l’età anagrafica e la mentalità?
“L’età in sé non è un problema ma l’ignoranza di una certa età. C’è una larga parte di persone che ha una cultura molto limitata, quella che ti passa la tv. Quando ero in Australia, avendo come assistente una insegnante, ho visto delle circolari che venivano diffuse nelle scuole e riguardavano l’atteggiamento che bisognava tenere verso gli studenti transgender. Una questione che da noi farebbe scandalo. Quindi, se non cominciamo dall’educazione nelle scuole, non cambieremo mai. All’estero stride ancora di più questa situazione. I 3mila anni di storia del nostro paese sono evidenti, al confronto con gli altri. Anche se non abbiamo i protocolli ci arriviamo con il ragionamento, ma in alcuni aspetti rimaniamo indietro. Perché è un paese gestito da vecchi, che passano solo quello che sanno. Non hanno idee innovative. Insomma, siamo messi male”.
Eppure nel ’99 era arrivata una chiamata che ha fatto storia: allenare la Viterbese, formazione maschile in serie C1. Su quell’esperienza, breve, si è parlato molto.
“Ognuno ha travisato i fatti come gli faceva più comodo. Gaucci si è comportato con me come con gli altri allenatori. Non è finita perché ero una donna. Ma se un presidente mi viene a dire chi deve giocare non lo accetto. Magari un uomo è più accomodante. Ma ci sono differenze tra uomini e donne che sono naturali”.
Facci qualche esempio.
“Nel mio ambito, nell’accademia mista in cui allenavo, il ragazzino lo devi frenare perché vuole essere più bravo del suo compagno: avere il tiro più forte, fare più gol. Non è così con le ragazze, che preferiscono essere amiche di quella o quell’altra. Per questo non propongo gli stessi allenamenti. Se all’uomo dici di fare un 5 contro 2, i due che sono in mezzo vanno ai duecento all’ora. Non è così per le donne. Le esercitazioni sono tutte studiate per gli uomini. E’ così nella società italiana. E’ tutto un mondo da ripensare”.
Tornando a te, com’è che una professionista con la tua esperienza è finita nei Caraibi?
“Mi sono dovuta trasferire per lavoro, voglio essere chiara. Quando è arrivata la crisi ho resistito per un periodo, anche partecipando a trasmissioni televisive dove mi facevano i complimenti e si stupivano perché non sbagliavo i congiuntivi ma poi offerte concrete per tornare ad allenare non ce n’erano. La scelta, anche nel calcio femminile, purtroppo ricade sempre sugli uomini. Ma è normale, se a scegliere sono sempre loro. Qui in Trinidad e Tobago, invece, c’è una Federazione che investe nel calcio femminile, nonostante la popolazione ridotta, però il presidente ci crede e stanzia tutto il possibile in questo settore. I fondi della Fifa, almeno qui, non vengono usati per certi interessi ma per far crescere il calcio femminile”.
Ma l’ambiente com’è?
“Abbiamo tutto il necessario, con strutture molto belle e con il mio staff ho la possibilità di allenare tutti i giorni le mie giocatrici. E’ chiaro che è un paese in cui devi stare attenta a chiudere la portiera dell’auto, vedere che nessuno ti segua. Ma nel contempo c’è un grande entusiasmo, gente che mi ferma per la strada e mi ringrazia. E non abbiamo ancora fatto una partita ufficiale. Però la notizia è stata diffusa con grande risalto e quindi lavoriamo per lasciare un segno nel presente e nel futuro”.
C’è una giocatrice, in Italia o all’estero, che può essere la tua erede?
“In Italia no. Perché non si trattava solo di giocare ma di essere paladina di alcuni diritti. Noi se non avevamo il preparatore atletico e pure bravo ci incazzavamo. Oggi non vedo tutto questo. La mia è una generazione che si incazzava. Questa è una generazione che gioca con i telefonini, con i social, non hanno contatti con la realtà. Forse l’unica che mi viene in mente è Kelly Smith, inglese che ha vestito la maglia dell’Arsenal. Anche Marta Vieira da Silva, brasiliana attaccante del Rosengård è bravissima tecnicamente, però io cerco di dare valore all’intelligenza calcistica. Ci sono tante brave giocatrici ma non con quella caratteristica”.
Nel calcio maschile? Hai contatti, persone con le quali ti confronti?
“Ho un ottimo rapporto con Michele Uva, direttore generale della Federcalcio, che al di là delle competenze calcistiche è una persona con cui ho un ottimo rapporto. Altri contatti con il mondo sportivo italiano, per il resto, quasi nulli. Non mi è stato proposto nessun incarico internazionale, nonostante sia laureata. Forse perché sono troppo poco politica. Oppure perché lo sono troppo”.
Ma se ci fosse la possibilità di tornare, magari in un ruolo dirigenziale, accetteresti?
“Certamente sì. Ma per ora mi sento più rispettata e stimata qui. Quando sono arrivata sembrava fosse sbarcato Mourinho. Non me la sento più di tornare in un ambiente in cui lotti in solitaria senza nessuno che ti sostiene. In Italia mi dà molto fastidio un aspetto: un allenatore uomo che vince viene riconosciuto mentre una donna no. Io ne sono l’esempio. Con il Canada ho vinto quello che equivale all’Europeo ma quando si dice: chi sono gli allenatori che hanno vinto all’estero, il mio nome non esce mai. E quell’anno abbiamo battuto gli Stati Uniti, formazione numero uno al mondo. Che il Canada, allenato da uno staff totalmente italiano e che da uno studio della Fifa sia risultata la squadra meglio allenata dove le giocatrici esprimevano la velocità maggiore in varie categorie non è minimamente menzionato. Ho fatto molto come giocatrice e come allenatrice e se fossi stata uomo, come minimo, anche senza panchina oggi sarei almeno commentatrice di Sky”.
E’ stato appena riconfermato alla Federazione, ma una chiamata o un messaggino da Tavecchio non sono mai arrivati?
“Sono consapevole di essere stimata dal presidente Tavecchio, tra l’altro l’unico che ha fatto qualcosa per il calcio femminile. Certo, se ci fosse stata una influenza maggiore di qualcuno che conosce meglio il settore sarebbe stato diverso. Aprire le porte delle società maschili alla realtà femminile è stata una strada giusta. Ma si doveva fare qualcosa anche per la Nazionale. Sta andando male, il divario con le altre formazioni si sta ampliando. Hanno ancora le mie relazioni in sede, di quando la allenavo, dove avvisato che il gap era in crescita. Bisogna dare strumenti in più nel marketing e nella comunicazione, oltre a un sostegno maggiore. C’è chi dice: se il femminile non vince nulla non si può dargli di più. Ma il rugby maschile cosa ha vinto? Eppure hanno avviato un progetto serio, pur continuando a non avere risultati”.
Sembra che di sassolini Carolina Morace ne abbia parecchi da levare.
“Guarda, basti pensare che nella Hall of Fame sono stata la prima ad essere inserita, poi Patrizia Panico e Melania Gabbiadini. Ma vi invito ad andare a vedere chi era Elisabetta Vignotto. Il fatto che lei non sia presente grida vendetta. Sarebbe dovuta entrare prima di me. E’ stato come cancellare Gigi Riva dal calcio italiano. Personalmente, ad essere la prima, mi sono sentita imbarazzata e infatti l’ho contattata”.
La Nazionale femminile italiana, guidata da Antonio Cabrini, non sta andando molto bene. Ha perso 3-0 contro la Corea del Nord, 4-1 dal Belgio e 6-0 dalla Svizzera. E anche le altre selezioni, guidate da uomini, non brillano. Ma come mai così poche donne sulle panchine azzurre?
“Ti dico solo che io nella mia carriera sono sempre stata abituata a basarmi sui risultati. Ma finché di questi non si tiene conto e vengono indicati allenatori uomini che non hanno dimostrato molto non si andrà lontano. Ma se una mamma non vede un futuro per la figlia, perché mai dovrebbe incoraggiarla a scegliere il calcio?”.