Nei giorni scorsi vi abbiamo raccontato la storia di Irene González, pioniera del calcio spagnolo. Un’altra storia che merita di essere raccontata è quella di Ana Carmona, detta Nita Carmona o Veleta. Nata a Malaga, la sua è una storia di vicissitudini, di sofferenza. Nita ha dovuto nascondere il suo aspetto femminile per giocare con gli uomini. Il giornalista Jesús Hurtado è riuscito a scoprire la sua storia. Emblematica la sua fotografia con la maglia del Veléz con bende nel petto, forcine e un berretto per nascondere i capelli.
Il padre di Ana era stivatore nel porto di Malaga, e lei da piccola, voleva giocare a calcio, ma non poteva farlo come tutti gli altri. Già da bambina, aveva provato a giocare alcune partite nel quartiere dell’Artillería, ma la famiglia che l’aveva messa in castigo più volte vietandole di uscire di casa. Anche i vicini di casa erano contrari al fatto che una bambina giocasse a calcio perché era contrario alle aspettative che la società aveva per una donna. Addirittura, racconta Jesús Hurtado, un medico aveva raccontato alla famiglia che il calcio avrebbe danneggiato lo sviluppo futuro del corpo di una donna. Proprio per questo, Nita fu mandata a Vélez-Malaga – un comune di 82.000 abitanti circa (ad oggi, all’epoca ne aveva circa 25.000) vicino alla città andalusa – per allontanarsi dall’ambiente in cui ormai era osteggiata.
A Malaga, aveva potuto giocare grazie all’aiuto del sacerdote Francisco Míguez Hernández, innamorato del calcio e con grande passione per i precetti salesiani, in particolare per l’idea che lo sport fortifica il corpo e lo spirito. Lui aveva protetto Nita, infatti a lui non interessava che chi giocasse fosse uomo o donna, ma l’ira della famiglia fu più forte della sua protezione, nonostante fosse tra i fondatori dello Sporting Malaga e fu addirittura beatificato da Papa Benedetto XVI° durante il suo mandato.
Nita, però nel frattempo era già stata scoperta nel giocare con lo Sporting Malaga, sua squadra del cuore. Perciò fu arrestata e insultata, ma lei non negò la sua passione per il club, tant’è che fu sepolta con una maglietta della squadra del cuore assieme a quella del Velez, morta a soli 32 anni di febbre esantematica. Al Vélez però riuscì a giocare a calcio senza essere scoperta sotto il nome di “Veleta“, (banderuola ndr) appellativo che le diedero i compagni di squadra per la sua qualità di donna fuori dal campo e “uomo” dentro il terreno di gioco. La storia di Veleta rimase segreta per oltre un secolo e con lei tutte le sue sofferenze incluso il rifiuto della società, della famiglia e addirittura dovette subire la rasatura dei capelli a zero dopo che fu scoperta “fingersi uomo”. La storia di Veleta deve farci riflettere su quante libertà abbiamo e quante ne dobbiamo ancora conquistare per la vera uguaglianza tra uomo e donna, nel nostro Pianeta che prima o poi sarà anche un mondo giusto con diritti uguali per tutti, senza differenze di genere.
Photocredit: Diario Vasco