Professioniste, non riconosciute come tali ma di fatto professioniste. Lontano anni luce dai colleghi uomini, a loro il calcio non dà la stessa visibilità, gli stessi benefici, le identiche possibilità e le medesime tutele.
Se nel calcio dei maschi la linea di separazione tra il mondo del professionismo e quello del dilettantismo é segnato dalla quarta serie ovvero la Serie D, per le donne questa divisione non c’è. Chi gioca a calcio in Serie A per esempio o in Champions League per farne un altro, in una squadra italiana e non è un uomo ricordiamolo, non è considerato un atleta professionista. Dilettante é e lo resterà ancora per un po’, almeno fino a quando non sarà rivista e modificata la legge numero 91 del 23 Marzo 1981, la famosa legge che già ha segnato un cambiamento epocale all’interno del mondo del pallone equiparando il giocatore di calcio a un lavoratore subordinato e non più a un bene di proprietà perenne della società. La nuova legge infatti stabilì quali sportivi potevano fornire la propria opera in cambio di una retribuzione usufruendo così di tutte le tutele del caso come in un rapporto di lavoro a tutti gli effetti. Fu la fine di un epoca in cui il vincolo sportivo era la norma (oggi invece la questione del vincolo resta un tema delicato che colpisce il mondo dei dilettanti e sul quale torneremo sicuramente a parlare più avanti) e l’inizio di una nuova era del calcio fatta di contratti da discutere e rinnovare (e comunque mai superiori ai cinque anni, merita ricordarlo). Una conquista non da poco la libertà contrattuale e la possibilità di inquadrare a livello normativo e considerare un atleta, un tecnico, un preparatore – ma anche altre figure che operano nello sport – come un lavoratore a tutti gli effetti. Per molti è anche la legge che ha dato il via all’ingresso di tanti furbacchioni nel mondo del pallone, procuratori in testa ma non solo aggiungo, grazie all’arrivo di molta più possibilità per far girare moneta. Senza inoltrarmi nella complicata analisi tecnica della legge che comunque va avanti da oltre trent’anni e che sicuramente presenta aspetti da chiarire e oggi sicuramente da modificare, c’è da sottolineare che in qualche modo nel calcio una divisione tra professionismo e dilettantismo c’è stata e anche se oggi qualcuno storce il naso sul fatto che un calciatore in Serie D sia considerato un dilettante occorre anche spostare lo sguardo e pensare alla quota rosa del pallone che è sempre e comunque considerata dilettante. Nel calcio femminile nessuna linea di separazione, non si può pensare di vivere di calcio, anche se ci si deve allenare cinque giorni su sette e il sesto giocare una gara di campionato, magari in trasferta a centinaia di chilometri da casa, esattamente come un qualsiasi giocatore di serie A, ma anche di B e pure di Lega Pro.
Qui l’impegno e il sacrificio a correre dietro a un pallone non è ripagato con lo stesso criterio dei maschi ma visto come una sorta di hobby, e c’è giusto solo il riconoscimento di un rimborso spese. Nulla di più, poche centinaia di euro magari un migliaio abbondante se si è giocatrici della nazionale ma non si pensi a cifre minimamente paragonabili a quelle dei colleghi calciatori. Lo stipendio? Quello devono andarselo a guadagnare il giorno dopo la gara altrove, in ufficio o in fabbrica o magari dipendere dai genitori se si studia. Va da se’ che anche il trattamento previdenziale è impossibile da immaginare oggi. All’estero la situazione in molti paesi è decisamente migliore sotto tutti gli aspetti tanto da spingere le nostre atlete più forti a continuare la carriera (da professioniste) oltre i confini facendo inevitabilmente calare il livello qualitativo del campionato italiano. E così mentre altrove qualcuno si batte anche per la parità salariale (è notizia di questi giorni che le ragazze della nazionale americana hanno ottenuto lo stesso trattamento salariale dei colleghi della nazionale maschile attraverso una legge che il parlamento ha approvato all’unanimità), qui invece siamo ancora a rimpolpare il nostro pregiudizio ridacchiando quando si parla di donne e pallone.
Lo so, sarà pure ripetitivo ma occorre ritirare fuori due dichiarazioni fastidiose di qualche tempo fa uscite dalla bocca di due governatori (solo uno però ancora resiste al comando) del calcio italiano, quella del presidente Tavecchio che definì le donne calciatrici sorprendentemente non così handicappatte rispetto ai colleghi maschi e poi l’altrettanto famosa uscita di Belolli sulle quattro lesbiche per far capire in modo chiaro e netto che oggi siamo fermi ancora a questo livello di considerazione. La verità è che la maggior parte delle persone la pensa in questo modo perchè, per chi non ha voglia di comprendere e conoscere questo sport coniugato al femminile, è decisamente più comodo liquidarlo così. Per valorizzare e dare dignità a un movimento in forte crescita che coinvolge un numero di atlete sempre più grande, e che nelle condizioni attuali sono spinte da una passione decisamente superiore rispetto ai maschi, occorre l’intervento concreto, fatto di investimenti e tutele, di una federazione che però al momento sembra poco interessata ad andare oltre a qualche piccola dichiarazione (spinta più dal ritardo rispetto ad altri paesi che da reale convizione di voler riconoscere e qualificare il movimento calcistico femminile italiano) e buon proposito verbale. Solo verbale però. Un classico.