Mentre il campionato nazionale di Serie B, l’Hellas Verona Women ne ha approfittato per pubblicare, sul sito ufficiale e su tutti i propri canali social, il quarto episodio di #VisteDaVicino, la rubrica delle gialloblù per presentare le storie delle diverse giocatrici del club. Qua riportiamo le dichiarazioni di Chiara Valzolgher, portiere classe 1992.
“Ho cominciato 9 anni, conti alla mano sono 23 anni ormai che gioco. Ho iniziato alle elementari, dove giocavo insieme ai miei compagni di classe, poi ho cominciato ufficialmente nel Villazzano, una squadra dilettantistica vicina a Trento. Sono rimasta lì fino alla terza media passando per i Pulcini, gli Esordienti e i Giovanissimi. Mi ricordo che all’inizio quando giocavo nei Pulcini il mio ruolo non era ancora quello di portiere, anche se a scuola mi allenavo già per giocare in porta. I miei compagni mi allenavano perché era quello il ruolo che volevo fare. In seguito dagli Esordienti in poi ho sempre giocato in porta”.
“Oggi ogni tanto magari mi piacerebbe provare la gloria del bomber (ride ndr). Mi piaceva l’aspetto acrobatico del portiere: buttarsi per terra, non avere paura di cadere o di sporcarsi, essere una bambina un po’ più esuberante delle altre. I tuffi per me sono sempre stati la cosa più bella del mondo. Essendo nata in Trentino d’inverno sciavo, mentre d’estate prendevo lezioni di nuoto, ma il mio sport durante l’anno scolastico è sempre stato il calcio”.
“Dopo il Villazzano sono andata al Trento, che però non è lo stesso Trento dove ho giocato prima di venire qui al Verona. Quella società si chiamava Trento Calcio Femminile, oggi non c’è più. Era una squadra di solo calcio femminile. Ho iniziato lì nell’Under 19, e ci sono rimasta dalla prima superiore fino alla quarta. Per i primi due anni ho giocato in Under 19 mentre gli ultimi due in A2, in Prima squadra. L’A2 era la seconda categoria dell’epoca, divisa in due gironi Nazionali; vincendo il proprio girone si saliva in Serie A”.
“Quando quel Trento è fallito mi sono trasferita al Sudtirol, che aveva appena vinto il proprio girone di A2 ed era salito in Serie A. Sono rimasta lì altri quattro anni, dalla quinta superiore fino al terzo anno di università. In quelle quattro stagioni siamo riuscite a vincere il campionato, ed è stato un bellissimo risultato perché è stato cercato. Il mio primo anno era coinciso con la retrocessione in A2 e per i tre anni successivi abbiamo sempre cercato di risalire. Ci arrivavamo sempre vicine, ma ogni anno sfioravamo questo sogno senza riuscire a concretizzarlo. L’anno in cui ce l’abbiamo fatta è stata una grande soddisfazione. Negli anni non avevamo mai mollato, eravamo riuscite a tenere il nostro gruppo unito e a raggiungere l’obiettivo. Dopodiché l’anno dopo la Serie A la società è di nuovo retrocessa in A2, ma non ha giocato quel campionato perché è fallita e ho dovuto cambiare squadra”.
“Sono tornata a Trento, dove sono rimasta fino a due anni fa. Lì dopo le riforme delle categorie sono ripartita dalla Serie C, campionato che siamo riuscite a vincere conquistandoci la Serie B. Per me giocare in quel Trento e raggiungere un risultato simile è stata una scommessa vinta. A Bolzano sono stata felice, ma andare a giocare lì per me voleva dire scommettere su una squadra della mia città. Il mio obiettivo è sempre stato quello di vivere e giocare in Trentino, e in quegli anni ho messo tanto di mio. Nel corso delle stagioni ho sempre deciso di restare dicendo di no a tutti, e in quella società ho fatto di tutto. Dalla calciatrice all’organizzatrice di open day, abbiamo creato progetti con la Provincia e ho anche fatto da conduttrice in un programma radio, ‘Radio in Campo’, che parlava del Trento e del calcio femminile trentino. Ricordo che i primi anni le ragazze che giocavano nelle giovanili erano poche, mentre ora c’è anche la squadra delle Pulcine; è stato fatto un lavoro incredibile. Vincere il campionato poi per me è stato come chiudere un cerchio, avevo vinto la mia scommessa”.
“Nel campionato di Serie B che abbiamo giocato eravamo un po’ la squadra di provincia che cercava di fare un campionato Nazionale, ma nonostante questo abbiamo combattuto fino alla fine. A fine stagione poi ho sentito che il mio percorso con il Trento aveva raggiunto un traguardo comunque importante e potevo andare, quindi poi ho scelto il Verona”.
“Nella mia carriera avevo sempre giocato tranne che per brevi momenti, come il primo anno al Sudtirol e nella seconda metà dell’ultimo anno sempre a Bolzano. Arrivare al Verona è stata una sfida per me: significava lasciare una squadra dove ero un riferimento e andare ad affrontare una situazione nuova, dove la probabilità di non giocare era alta”.
“Inizialmente mi sono detta ‘ok, vediamo com’è’. Dovevo imparare a conoscere il Club in cui ero arrivata, a capire le dinamiche di squadra. È difficile non giocare, soprattutto quando sei un portiere, ma ho vissuto la scorsa stagione come un’opportunità di crescita per me, soprattutto per il livello degli allenamenti e dei professionisti con cui potevo lavorare. Per la prima volta nella mia carriera mi allenavo davvero come una calciatrice. Con Michele (Martello, ex preparatore dei portieri del Verona, ndr) mi sono trovata benissimo. In passato andavo ad allenarmi con i maschi per poter lavorare con l’allenatore dei portieri. Sono passata da questo tipo di situazione a una società in cui potevo avere a disposizione un professionista per me ogni giorno che mi aiutava a crescere e migliorare. Per me è stato quasi un premio alla carriera. Possiamo dire che la scelta di venire al Verona è stata un po’ un regalo che mi sono fatta. Qui ho respirato un altro clima rispetto a prima. A 32 anni volevo scoprire quale fosse il miglior livello possibile al quale potevo arrivare. Ancora oggi però non sento di averlo raggiunto”.
“Sì perché alla fine mi sono trovata molto bene con l’ambiente, con lo staff e con le ragazze. Ho scelto Verona però anche per una questione di praticità, lavorando a Trento altre soluzioni più lontane sarebbero state insostenibili per me. Nella mia vita ho sempre messo al primo posto il lavoro rispetto al calcio. In generale, la cultura con cui sono cresciuta non mi ha mai fatto percepire il calcio come un lavoro, e questo ha pesato nelle mie scelte. All’Hellas riesco a giocare in maniera professionale, a vivere il calcio come fosse un lavoro, ma riesco anche a continuare a lavorare, quindi per me questa era la situazione perfetta. Quest’anno poi avevo più possibilità di giocare. Mi spiace aver perso alcune compagne, ma sono contenta delle nuove e del gruppo che si sta formando, sono fiduciosa”.
“Potenzialmente credo che siamo una buona squadra. All’inizio dello scorso anno ho un po’ faticato dal punto di vista umano, ma ero io che dovevo imparare a entrare in confidenza con questa nuova realtà. Infatti poi purtroppo alla fine dell’anno mi è sembrato come se avessi perso del tempo, come se ci avessi messo troppo a legare con le persone e mi fossi persa qualcosa, e un po’ mi è dispiaciuto. Quella di quest’anno è una situazione diversa. Ci siamo io, Rachele e Stefania, un po’ le ‘vecchiette’ del gruppo, e poi c’è un gap generazionale con le altre più giovani, ma in realtà non è una situazione che mi pesa. Penso anzi che le minori pressioni e la spensieratezza delle giovani possa aiutarci a vivere in maniera più serena la stagione. I gruppi poi vanno messi alla prova nelle difficoltà: finora, nonostante i risultati non siano stati eccellenti, siamo rimaste unite. Vedremo più avanti come proseguirà il campionato. È facile essere un gruppo quando si vince sempre, ma per ora da questo punto di vista siamo partite bene. Sono fiduciosa per la nostra stagione, possiamo crescere partita dopo partita”.
“Sinceramente da giovane questo non è mai stato un pensiero per me. Da piccola, sono sincera, non sapevo nemmeno che esistesse il calcio femminile. Dall’Under 17 all’Under 20 ho giocato per le Nazionali giovanili, e ricordo che quando mi hanno convocata la prima volta non sapevo nemmeno ci fossero le Nazionali femminili”.
“Ovviamente poi dal non saperne niente sono passata ad avere l’ansia di ricevere o meno una convocazione. Le ragazze oggi invece seguono la Nazionale, ci tengono, stanno attente a queste cose. Ricordo anche che da piccola non volevo passare dalla squadra maschile dove avevo iniziato a una femminile, ma per forza di cose se avessi voluto continuare a giocare sarei dovuta andarci. Al primo allenamento poi ho visto giocare Alice Parisi, è lì ho capito che c’eravamo anche noi. Semplicemente era una realtà che ancora non conoscevo. Era difficile per me immaginarmi calciatrice da grande, che è la principale differenza con le ragazze di oggi, che invece hanno il sogno di diventarlo. Io sono cresciuta pensando che non fosse possibile. Per me il calcio ha sempre significato qualcosa di transitorio, non mi penso calciatrice di professione. Credo nel concetto di doppia carriera: non ci definiamo solo come calciatrici, ma anche altro. Io sono anche una scienziata cognitiva e lo dico con orgoglio”.
“Il mio percorso è stato questo. Dopo essermi laureata in Psicologia, studiando tre anni a Milano e due a Trento, ho dato l’esame di Stato per diventare Psicologa e poi ho iniziato il Dottorato di Ricerca in Scienze Cognitive, un percorso di studi in co-tutela tra l’Università di Trento e quella di Lione. Devo ringraziare infatti il Trento che in quegli anni mi ha permesso di continuare a giocare nonostante dei periodi che dovevo passare per forza in Francia per lavoro. Ora ho un assegno di ricerca post Dottorato dall’Università di Trento, sono una Ricercatrice. Lavoro per l’Università di Trento, mi occupo di percezione acustica, meta-cognizione. Il mio lavoro ruota attorno alla percezione acustica. Lavorare in ricerca ha uno scopo di conoscenza e di fornire indicazioni alla pratica clinica”.
“Centra poco in effetti, ma sto cercando di applicare la meta-cognizione anche al calcio. La meta-cognizione è l’abilità di riflettere sulle proprie abilità, e diciamo che insieme a Nicola (Sorio, preparatore atletico del Verona ndr) sto portando avanti un esperimento con le ragazze in squadra. È un’abilità cognitiva superiore che centra in tutto ciò che facciamo, una specie di consapevolezza delle proprie capacità e anche l’abilità di monitorarsi mentre si sta facendo qualcosa, di riflettere su come si sta performando nel momento stesso in cui si sta facendo un’azione. Ho coinvolto Nicola in un esperimento che mi sono inventata: stiamo misurando la capacità delle mie compagne di stimare i chilometri che percorrono in allenamento. Dopo ogni allenamento mi rispondono a un questionario in cui dicono secondo loro quanti chilometri hanno fatto e anche quanti di questi chilometri sono stati corsi più velocemente. Li ho divise in due gruppi, uno riceve un feedback e un altro no. Scopriremo i risultati più avanti”.
“Non ho mai avuto un idolo particolare tranne Gilardino, un giocatore che mi piaceva moltissimo. Ho avuto dei portieri che mi piacevano come Neuer e Frey; tra quelli che giocano adesso mi piacciono giocatori come Di Gregorio, Vicario e Svilar. In generale però non ho mai avuto una persona in particolare che mi ispirasse a fare questa vita, anche perché non ho quasi mai la sensazione di dirmi ‘non ho voglia’. A volte mi domando magari chi me lo fa fare. Per andare ad allenamento parto dopo il lavoro, ci metto un’ora in treno ad andare e tornare ogni giorno. Durante il viaggio continuo a lavorare. Ci sono dei giorni in cui magari si è più stanchi che in altri, ma quando entro in campo sono sempre contenta. Quando spiego ai miei colleghi quello che faccio non lo capiscono, mi chiedono quando smetterò, mi dicono che ormai ho 32 anni, ma a me in campo sembra di avere 12 per quanto mi diverto. Mi sembra di essere ancora con mio fratello, a giocare alla casa in montagna per ore. Lui ha smesso, ma viene a tutte le mie partite, è l’unico che è sempre venuto. Una persona che mi ha aiutata nella mia carriera è stato il mio vecchio allenatore, che purtroppo oggi non c’è più, Gunther Mair. Ricordo lui volentieri perché ha sempre creduto tanto in me. Dal punto di vista umano è stato un mio grande tifoso, a volte vado ancora anche a trovare sua moglie, gli ho voluto bene”.
“L’idea che un tuo sbaglio può condizionare una partita è sicuramente un peso, ma è un aspetto che subivo di più da giovane, soprattutto nei primi anni in Prima squadra dove ero molto piccola. Mia mamma infatti veniva poco a vedermi perché anche lei era in ansia per me, aveva paura che sbagliassi o che mi facessi male. Con il tempo io sono cresciuta, e nelle ultime due stagioni, in un ambiente più professionale come quello del Verona, il fatto di discutere delle mie performances con persone competenti mi ha aiutata. Al Verona mi sento più tutelata da questo punto di vista. Noi portieri parliamo tra noi delle nostre partite, ragioniamo sugli errori insieme, sulle scelte, su cosa migliorare. La precisione e la competenza del feedback mi aiuta molto, mi tranquillizza nelle scelte che prendo, mi aiuta a relativizzare. Il ruolo del portiere si basa sul prendere la decisione giusta al momento giusto, penso che un po’ più di consapevolezza aiuti a relativizzare. Secondo me, in generale, fare anche altro nella vita, frequentare anche altri ambienti che vivono lo sport in maniera diversa, aiuta a vivere in maniera differente anche gli errori, e questo personalmente mi aiuta. Per me il calcio è importante, è una cosa che conta, ma il mondo al di fuori è molto più complesso. Quando si è consapevoli di questo, gli errori si affrontano con più leggerezza. È un tipo di distacco che credo sia necessario”.