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Per la terza settimana consecutiva l’Hellas Verona Women propone la rubrica #VisteDaVicino, giunta al terzo appuntamento. Dopo Pecchini e Mancuso, è la volta dell’ex Tavagnacco Elisa Casellato. Ecco le sue dichiarazioni, pubblicate sul sito ufficiale del club e riportate anche sui profili social del club.

“Ufficialmente ho iniziato a giocare quando avevo sette anni, in una squadra maschile vicino a casa mia, a Treviso, il Casier Dosson, una società che era affiliata alla scuola calcio dell’Inter. In realtà però ho sempre giocato da quando me lo ricordo, sia all’asilo che a scuola; potrei dire che gioco da sempre”.

“Avevo due anni quindi non me lo ricordo personalmente, ma mia mamma mi racconta sempre che insieme al mio bisnonno già giocavo a quell’età. Lui mi prendeva in braccio e mi faceva calciare il pallone, diceva sempre che da grande sarei diventata una calciatrice. A volte quando sono giù di morale o in un momento più difficile di altri penso a lui, che ormai non c’è più. Penso a questa cosa che diceva, è un po’ la mia forza: gioco anche un po’ per lui”.

“Ho giocato fino a 13 anni con i maschi a Treviso, e a 14 anni sono arrivata al Verona. Qui ho fatto tutte le giovanili, dall’Under 15 fino alla Prima squadra. Quando ho iniziato nella squadra del mio paese, le ragazze erano pochissime, non c’era una vera e propria squadra femminile se non alcune lontane. Mi ricordo che al primo allenamento eravamo solamente in quattro ragazze. Ora invece le squadre femminili sono tante e ce ne sono anche lì. A Treviso però non avevo la possibilità di fare i tornei a cui partecipava il Verona. Nella mia zona c’era solo il Venezia, ma non era strutturato come l’Hellas. A 14 anni ho avuto la possibilità di fare un torneo in prestito con il Verona e da lì in poi non ho più smesso, mi sono legata a questi colori e non ho più mollato”.

“No, facevo avanti e indietro in treno, tutti i giorni. La mia vita era tutta organizzata in base al calcio. Mi alzavo la mattina alle 6.30 per andare a scuola. Quando finivo alle 13 tornavo a casa, mangiavo, dormivo un’ora circa e poi alle 15.20 uscivo per andare in stazione a Venezia. Da lì partivo verso le 16 e arrivavo a Verona dopo un’ora di viaggio. Mi venivano a prendere con il pulmino in stazione per andare al campo dove mi allenavo. Dopo l’allenamento tornavo di corsa in stazione, a volte per non perdere il treno non riuscivo nemmeno a farmi una doccia. Verso le 20.30 ripartivo e arrivavo alle 21.30 in stazione a Venezia, e poi da lì tornavo a casa, ci voleva più di mezz’ora in macchina ancora. Quando giocavo in Under 15 facevo questo viaggio per tre volte alla settimana, ma andando avanti di categoria ho iniziato a farlo ogni giorno”.

“È stato pesante, ma lo volevo troppo fare. Ho un po’ sofferto il fatto di non poter fare la stessa vita che facevano le mie amiche a Treviso. Loro facevano la loro vita, di sabato uscivano per andare magari a delle feste, ma per me il sabato era un giorno d’allenamento e dovevo sempre dire di no, che non potevamo vederci. È stata una situazione che in quegli anni sinceramente mi faceva un po’ soffrire, ma per me ne valeva la pena. Non ho mai messo in dubbio nemmeno per un momento il fatto di non fare quella vita. Per me giocare a calcio è una cosa scontata, mi appartiene. I viaggi in treno mi pesavano fisicamente perché erano stancanti, ma non mentalmente”.

“Ho esordito nel 2020 in Coppa Italia, avevo 16 anni. Quell’anno avrei dovuto giocare anche in campionato, ma purtroppo il giorno prima di scendere in campo ero risultata positiva al Covid e quindi avevo perso quell’occasione. L’anno dopo però, nella stagione 2021/22, mi sono riscattata esordendo contro il Milan in Serie A Femminile. Mi ricordo che giocavamo a Vigasio, era una partita del girone di ritorno. Sicuramente quello è stato uno dei momenti più belli per me, soprattutto perché pensavo di entrare in campo con l’ansia di giocare, invece ero tranquilla. Ho giocato facendo solo quello che sapevo fare”.

“Per me è stata molto formativa. Nonostante la stagione non sia stata delle più positive, rifarei sempre quell’esperienza perché mi ha caricata di tante responsabilità. Noi non ci accorgiamo quanto siamo fortunate qui al Verona, di quanto questa società sia organizzata davvero bene. Le altre realtà non hanno la nostra stessa fortuna. Lo scorso anno sono andata a giocare in una società storica come il Tavagnacco. Era una situazione particolare: loro stavano vivendo un momento di difficoltà e per me era la prima volta lontano da qui. Mi sono resa conto che qui vivevo un po’ in una bolla, al Verona ci sentiamo molto protette. Ho avuto delle difficoltà all’inizio, non a livello relazionale perché tutti erano molto disponibili con me. Per me è stato difficile trovare la mia posizione in campo. Negli anni precedenti avevo sempre giocato con le stesse persone, nello stesso modo, rimanendo nella mia comfort zone. Lì mi sono trovata con compagne diverse, che avevano altre caratteristiche. Alcune erano più grandi di me, altre no, ma dovevo comunque riuscire a giocare in quella situazione nuova per me”.

“All’inizio non sapevo come fare: mi innervosivo, mi arrabbiavo in campo, non riuscivo a gestire bene questa cosa. Poi mi sono confrontata con il mister, e quella conversazione ha cambiato la mia stagione. Mi ha spiegato che io arrivavo da una realtà in cui giocavo con persone preparate, che in campo giocavano anche per me e io giocavo in funzione a loro. A Tavagnacco invece mi sarei dovuta arrangiare, avrei dovuto prendermi le mie responsabilità. Da lì ho svoltato: ho iniziato a fare gol e assist, a sentirmi meglio in campo. È stata un’esperienza positiva a livello calcistico, ma soprattutto a livello umano, mi sono caricata di responsabilità. Quando sono tornata qui quest’anno, con una squadra così giovane, ho pensato che avremmo comunque potuto farcela. L’esperienza dell’anno scorso mi ha aiutata molto, mi sento preparata ad affrontare questo campionato”.

“Sì, sono tornata qui sapendo che avrei ritrovato una squadra nuova, ma già dai primi allenamenti ho pensato che avevamo il potenziale per fare bene. Il nostro è un campionato impegnativo a livello psicologico, l’ho già sperimentato l’anno scorso avendo giocato in una squadra che lottava per salvarsi. Alla fine vince chi ci crede di più e noi dobbiamo imparare a crederci di più”.

“Per me giocare a calcio è una cosa naturale, indipendentemente da quello che mi dicono gli altri. Arrivi magari a un punto della tua vita in cui le persone intorno a te dicono che in futuro poi dovrai andare a lavorare, ti domandano per quale motivo continui a giocare, perché tanto lo considerano un hobby. A me queste cose entrano da un orecchio e escono dall’altro. Il mio approccio al calcio non cambia, per me giocare è una cosa quasi scontata, poi in futuro vedremo”.

“Studio Scienze Motorie, ma il mio sogno è quello di fare fisioterapia. Mi piace lavorare nell’ambito riabilitativo, mi sento di appartenere a questa categoria e sto cercando di indirizzarmi verso questa direzione. Mi piace l’idea di studiare qualcosa che sia utile anche per la mia carriera calcistica”.

“Non ho un giocatore o giocatrice in particolare come modello, ma una cosa che prendo molto come riferimento è la mentalità del Manchester City di Guardiola. Ho guardato tutti i documentari sul City, la serie tv, ho letto il libro di Guardiola. Loro hanno una frase scritta in spogliatoio che ho fatto mia: ‘Alcuni sono nati qui, alcuni sono arrivati qui, ma tutti la chiamiamo casa’. Questa è una delle frasi più importanti per me. Nella nostra squadra ci sono alcune ragazze che sono nate qui, alcune ci sono arrivate, ma io spero che tutte sentano il Verona come la loro casa. È lo spirito che in tutti questi anni ha spinto questa squadra a fare bene”.

“Quest’anno sento molto di più il peso della maglia, sento la responsabilità di far vedere che questa squadra merita. Me ne sono resa conto dopo le prime partite, il fatto di non vincere mi faceva sentire davvero triste, non mi era mai successo nelle stagioni scorse. Il Verona è anche casa mia ormai, sono cresciuta qui. Sono partita da Treviso che ero una ragazzina e l’Hellas in questi anni mi ha cresciuta. Sento di avere un debito di riconoscenza nei confronti di questa società che voglio ripagare quest’anno”.

“Secondo me in campo divento un’altra persona, molto più autoritaria e rigida. A volte credo che le persone che mi conoscono in campo tendano ad avere quella visione di me sempre, ma in realtà fuori sono una persona molto tranquilla, disponibile. Sono arrivata in Prima squadra a 16 anni, la stessa età che hanno ora alcune mie compagne. A loro voglio trasmettere quella che è l’importanza di questa maglia, di questa società. Per giocare è necessario divertirsi, ma andare agli allenamenti non è un gioco. Bisogna dare sempre il massimo, non deve essere un momento superficiale. L’Hellas e la maglia del Verona sono una cosa profonda: mi interessa trasmettere questo messaggio a tutte le mie compagne”.