“Caro Presidente Infantino, 
La sponsorizzazione di Aramco è un dito medio al calcio femminile”.

Inizia così la lettera che, questa settimana, più di 120 calciatrici professioniste provenienti da 24 paesi e con oltre 2750 presenze hanno redatto per chiedere la fine dell’accordo di sponsorizzazione della FIFA con Saudi Aramco.
Aramco è la più grande compagnia petrolifera e del gas di proprietà statale al mondo con i suoi 2430 miliardi di fatturato, un valore ormai talmente alto da aver superato anche la Apple (dati registrati da Factset). I suoi introiti sono cresciuti notevolmente dopo le note vicende tra Russia e Ucraina.
Il gigante petrolifero, svolge un ruolo fondamentale nell’alimentare la crisi climatica: come riportato dal The Guardian solo qualche mese fa, si tratterebbe dell’azienda più inquinante al mondo per emissioni di carbonio.
Come se ciò non fosse abbastanza, la società è per il 98,5% di proprietà dell’Arabia Saudita, paese che annovera un ampio curriculum di violazioni dei diritti umani contro le donne e altre minoranze, compresa la comunità LGBTQIA+.

La notizia che Aramco ha stretto accordi con la FIFA per sponsorizzare sia i Mondiali maschili del 2026 che quelli femminili del 2027, è stata diramata dal presidente Infantino con estrema soddisfazione, ma non è stata accolta con la medesima disposizione d’animo dalle organizzazioni, tra le quali Amnesty International, che si occupano in prima persona della tutela dei diritti umani (sistematicamente calpestati in Arabia Saudita).
Le rimostranze delle sportive, da sempre attente a sostenere un calcio che sia il più possibile inclusivo, sono arrivate immediatamente.
Lo sport, infatti, ha (o dovrebbe avere) ad ogni livello, un risvolto sociale e l’interesse crescente di Aramco ha insinuato nelle menti di molti il sospetto che si tratti di ‘Sportwashing’. Il termine anglofono in italiano è traducibile con una perifrasi con il significato di pulire la propria controversa immagine promuovendo le manifestazioni sportive (siano questi i Mondiali di Qatar 2022, la Formula1, il Six Kings Slam o appunto i Mondiali 2026/2027).

L’iniziativa ha le sue principali fautrici in Sofie Junge Pedersen, nell’olandese Tessel Middag e nella noezelandese Katie Rood.
La centrocampista danese, oggi militante nell’Inter e con un passato di cinque anni alla Juventus Women, ha motivato questa scelta con una dichiarazione all’ANSA affermando quanto sia distopico chiedere alle calciatrici di fregiarsi di Saudi Aramco come sponsor.
Alle loro voci si è unita quella di Maitane Lopez (Gotham FC e Nazionale Spagnola), della finlandese Sanni Franssi, di Jessie Fleming (Portland Thorns e capitana della nazionale canadese), Vivianne Miedema (di nazionalità olandese ma militante in Premier League, Arsenal prima e Manchester City poi) solo per citare qualche nome.
Intervistata dalla BBCSport, Miedema ha spiegato che “La FIFA grida sempre che vuole che il calcio sia inclusivo. Se è così, assicuratevi di allinearvi con sponsor che diano l’esempio. Credo che come sportive, e soprattutto come calciatrici, abbiamo la responsabilità di mostrare al mondo e alla prossima generazione ciò che è giusto. Questa sponsorizzazione non è adatta a ciò che la FIFA rappresenta“.
Il diffondersi della notizia ha scosso le coscienze anche delle calciatrici italiane o che, proprio come Pedersen, militano nel campionato della penisola. Tra loro Elena Linari (difensore della Roma e capitano della Nazionale), Katja Schroffeneger (Como Women), Francesca Durante e Marina Georgieva (Fiorentina), Paulina Krumbiegel (Juventus Women), Matilde Lundorf e Doris Bacic (Napoli), Tecla Pettennuzzo e Norma Cinotti (Sampdoria), Rachele Baldi (Inter).

Ad avvalorare, qualora ce ne fosse bisogno, l’urgenza delle calciatrici di far sentire la propria voce, la presenza anche dell’afghana Khalida Popal.
Popal ha una storia di coraggio e resilienza che riassume bene quanto ancora le donne siano costrette a combattere per veder riconosciuto il diritto di seguire le proprie aspirazioni, di avere una propria etica e talvolta semplicemente ad esistere.

La lettera, di cui il giornale spagnolo El Pais ha anticipato il contenuto, è una chiara presa di posizione contro quello che viene definito “un regime autocratico che viola in maniera sistematica i diritti delle donne e criminalizza la comunità LGBTQIA+”.
Onore al coraggio di tutte le firmatarie della protesta che si sono esposte contro questo colosso e contro tutto ciò che questo rappresenta. Le calciatrici non permettono che il buon nome del calcio femminile venga accostato a una società produttrice di inquinamento e per cui i diritti base dell’uomo sono un optional.
Una partnership del genere, infatti, renderebbe vani tutti quegli ideali e valori che rendono il calcio femminile libero dalla tentazione di farsi fagocitare da un mondo carico di denaro e dalle sue conseguenze negative.

Mentre il calcio femminile rumoreggia venendo praticamente ignorato dall’opinione pubblica o relegato a discorsi aperti e chiusi nel giro di poche frasi, il silenzio del corrispettivo maschile diventa più assordante giorno dopo giorno.
Ci si domanda come mai le calciatrici siano più attente rispetto ai loro colleghi uomini a tutto ciò che riguarda non soltanto il proprio essere, ma la comunità e la risposta è da ricercare nel modo in cui le donne sono abituate a muoversi in una società talvolta troppo asservita alle logiche di mercato. C’è un egoismo ormai manifesto che riguarda tutto ciò che può in qualche modo essere svantaggioso ad un ricavo pecuniario.
Intervistata in proposito sulla Rai, l’ex calciatrice e ora giornalista sportiva Katia Serra ha confermato di non essere sorpresa di vedere le donne muoversi per portare avanti la protesta perchè “tradizionalmente sono più sensibili ad attivarsi anche per temi che vanno al di là di un qualcosa legato alla sfera personale“.

La FIFA non mostra di voler retrocedere dalla propria decisione a scapito di un calcio femminile che vuole conservare la funzione educativa dello sport sia per il corpo che per lo spirito, per se stesse e per il pubblico che sempre più numeroso si avvicina a questo sport. Il calcio, così come le giocatrici lo intendono, dovrebbe mirare ad un armonioso sviluppo delle componenti dell’uomo (sia dello sportivo che del tifoso) offrendo esempi di onestà, correttezza e rispetto che vanno preservati e promossi come capisaldi del vivere lo sport e la vita in modo etico.

Federica Pistis
Sono nata in provincia di Cagliari il 29/08/1992. Mi sono laureata in scienze dell'educazione e della formazione primaria e ora frequento la magistrale di pedagogia presso l'Unimarconi di Roma. La mia passione per il calcio è nata quando ho iniziato a seguire questo sport perchè mio fratello è un grande tifoso del Milan e io cercavo un punto d'incontro con lui. Ho iniziato a guardare le partite, e a comprenderne i meccanismi poi è arrivato quello femminile che mi ha conquistata al punto da sentire un po' mie anche le loro imprese.

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