Anche solo immaginare un traguardo tanto incoraggiante sarebbe sembrata, fino a pochi anni fa, pura utopia. Eppure, come spesso accade, le idee più irrealistiche finiscono per concretizzarsi lasciando ben sperare, nonostante tutto, nell’intelligenza e nel buon senso dell’umanità. Effettivamente, infatti, solo un visionario avrebbe potuto prevedere un’apertura tanto significativa di un paese mediorientale al calcio femminile.
A farlo è stato il Qatar, ricca nazione della penisola arabica che quest’anno ospiterà i Mondiali di calcio. Ospite d’eccezione, non a caso, è stato proprio il testimonial della Coppa del Mondo: David Beckham. Lo scorso 8 febbraio, la leggenda ex United e Real Madrid ha infatti presenziato la premiazione dell’Amateur Women’s Football, torneo femminile parte del progetto Women and Girls Football Initiative.
L’evento, tenutosi all’Education City Stadium di Doha, è stato un modo originalmente progressista per festeggiare la giornata qatariota dello sport. “Vogliamo che questo stadio diventi un luogo inclusivo in cui possano aver luogo attività, progetti ed iniziative educative finalizzate allo sviluppo del paese e dello sport. Siamo fiduciosi che questo evento sia d’esempio e ponga le basi per ciò che succederà in seguito ai Mondiali“, sono state le dichiarazioni rilasciate da Alexandra Chalat della Qatar Foundation.
Da un punto di vista organizzativo, il torneo ha visto otto squadre amatoriali contendersi la vittoria finale, mentre laboratori didattici ed altre attività hanno intrattenuto gli spettatori nel corso della giornata arricchendo l’intero evento. Al termine della competizione, David Beckham ha inoltre assegnato l’ambitissimo Golden Boot a Nusaybah Peltier, talentuosa dodicenne che si è detta entusiasta dell’occasione avuta. “Iniziai a giocare a calcio con mio fratello e mia sorella quando avevo cinque anni e questo è stato il torneo più importante a cui io abbia mai preso parte“, ha infatti dichiarato la giovane premiata.
Un’altra partecipante, Hana Abu Gabal, ha inoltre fornito un interessante spunto di riflessione in merito alle pari opportunità nel paese: “Avere l’opportunità di giocare a calcio non è sempre scontato per una ragazza. Questo torneo è stata una grande occasione che spero abbia aperto gli occhi a molte persone mostrando a tutti cosa siamo in grado di fare!“. L’iniziativa, fortemente sostenuta dalla sceicca Hind bint Hamad Al Thani, si pone in continuità con gli importanti cambiamenti che stanno pian piano interessando altri paesi mediorientali.
Lo scorso 22 novembre, ad esempio, l’Arabia Saudita ha dato il via al primo campionato femminile della sua storia, un evento che lo stesso presidente della Federcalcio saudita, Yasser al-Mishal, ha definito “cruciale” per la crescita della nazione. Si è infatti trattato di un enorme passo in avanti per un paese che, appena due anni fa, concesse per la prima volta l’ingresso negli stadi alle donne. Le calciatrici saudite potranno dunque finalmente inseguire la loro passione, nella speranza che questo necessario ed epocale cambiamento non si fermi qui, tanto in Arabia quanto in tutta l’area limitrofa.
Il rischio che queste iniziative rientrino in una strategia volta esclusivamente a migliorare l’immagine internazionale di questi governi, distogliendo l’attenzione dalle altre problematiche interne è, però, molto alto. Per quanto i segnali di apertura in Arabia Saudita e Qatar siano incoraggianti e degni di nota, è ancora troppo presto per vedere il bicchiere mezzo pieno.
Risulta infatti impossibile tralasciare le innumerevoli ed evidenti violazioni dei diritti a cui è soggetta l’intera popolazione femminile nei paesi sopracitati. Basti pensare, ad esempio, che in Qatar non esiste una vera e propria legge contro la violenza domestica, ma solo un piccolo articolo nel diritto di famiglia che “dovrebbe” impedire ai mariti di ferire le proprie mogli. Ogni ragazza qatariota, se single e con meno di 25 anni, non è inoltre libera di viaggiare oltre i confini nazionali senza il permesso di un tutore.
Discorso diverso per le donne sposate che, pur avendo la possibilità di spostarsi senza alcuna limitazione, sono soggette ad un eventuale, improvviso ed indiscutibile divieto imposto dai loro mariti. In caso di ribellione o di una semplice contestazione, esse rischierebbero inoltre di essere dichiarate “disobbedienti“, perdendo così il sostegno finanziario dei consorti. Nella maggior parte delle situazioni, ciò rappresenta una vera e propria tragedia per delle donne che non possono sempre svolgere lavori che si distacchino troppo dalle sole faccende domestiche.
A queste tremende violazioni vanno poi aggiunte le pesanti repressioni subite dalla comunità LGBTQ+, lo sfruttamento e la morte di migliaia di immigrati impiegati a nero come operai durante la costruzione degli impianti che ospiteranno i prossimi campionati del mondo e la criminalizzazione di ogni categoria di attivisti e attiviste. Come detto in precedenza, c’è dunque un forte rischio che l’improvvisa apertura al calcio femminile si riveli, al pari dell’organizzazione stessa dei Mondiali 2022, un astuto escamotage per insabbiare tali problematiche.
Per descrivere questa abitudine ormai ampiamente consolidata e diffusa, l’Amnesty International ha coniato un apposito termine: “sportwashing”. La celeberrima organizzazione ha successivamente individuato in appassionati e tifosi, non necessariamente sensibili e poco informati, il pubblico ideale a cui essa è rivolta. Questa tipologia di spettatori, infatti, risulta spesso addirittura infastidita dalle “interferenze”, quali proteste, polemiche e indagini, nella fruizione di uno spettacolo sportivo che, proprio come la prossima Coppa del Mondo, finisce sempre per favorire esclusivamente gli interessi dei governi interessati.
Tra le cause principali del successo dello sportwashing va inoltre annoverato quel giornalismo miope e concentrato esclusivamente sull’evento sportivo. Molti cronisti tralasciano infatti ogni aspetto relativo a violazioni dei diritti umani o ad altre problematiche non esplicitamente collegate alla manifestazione da raccontare, passando la patata bollente alle redazioni straniere o ignorando superficialmente quanto accade lontano da stadi e palazzetti dello sport. In questo caso, un’esaltazione acritica e limitata di queste iniziative contribuisce dunque a pubblicizzare un’immagine finta e patinata di paesi moderni e pronti, solo in apparenza, ad importanti riforme.
A questo punto sorge spontanea una domanda: come difendersi dallo sportwashing? Per farlo, l’Amnesty International invita le altre organizzazioni a livello nazionale ed internazionale a svolgere ricerche approfondite in merito, sostenendo ogni forma di attivismo e portando avanti oculate strategie di adovcacy. Le sportive e gli sportivi, inoltre, sono esortati a compiere una scelta tanto impopolare quanto necessaria: rifiutare la partecipazione o la sponsorizzazione di eventi in paesi che negano e calpestano i diritti umani.
Anche i semplici appassionati e gli spettatori possono e devono avere un ruolo importante nella lotta allo sportwashing, assumendo un atteggiamento maggiormente critico ed evitando di chiudere gli occhi dinnanzi a problematiche che, fin troppo spesso, tendono ad ignorare perché apparentemente lontane dalla loro quotidianità. Detto ciò, non resta che sperare nella buona fede delle personalità coinvolte nell’organizzazione dell’Amateur Women’s Football e in un reale passo in avanti di tutto il paese.
Possiamo infine pensare che il tempo dei cambiamenti sia finalmente arrivato oppure si tratterà di un ennesimo specchietto per le allodole? Solo il tempo saprà dare una risposta esaustiva a questo cruciale quesito, sciogliendo o confermando gli innumerevoli dubbi ed il crescente scetticismo circa l’operato dubbio e spesso controverso del Qatar e degli altri stati dell’area mediorientale.